Molteplici sono i motivi per cui vale la pena recarsi a Palazzo Pretorio di Cittadella (Pd) per visitare Gli ambienti di Alberto Biasi (Padova, 1937), curata da Guido Bartorelli (Padova, 1972) e aperta fino al 6 novembre. In mostra un numero elevato di ambienti realizzati dall’artista padovano prima e dopo la sua partecipazione al Gruppo N con Manfredo Massironi, Edoardo Landi, Ennio Chiggio e Toni Costa. Già questa una rarità, se pensiamo alle difficoltà tecniche nel riproporre a distanza di oltre cinquant’anni una tale tipologia espositiva. Una gran parte degli ambienti progettati da Biasi negli anni Sessanta, infatti, è stata smantellata e non è più recuperabile. Qualcosa di simile può essere osservato all’ultimo piano del Museo del Novecento a Milano, che accoglie ambienti realizzati dal Gruppo T, fondato da Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo, Gabriele De Vecchi e Grazia Varisco.
L’attualità sconcertante degli ambienti si riflette in una componente effimera, che è il frutto della fusione/diffusione dell’oggetto artistico nello spazio circostante: il riflesso nato dall’opera si proietta sullo sfondo fino a aderire pienamente alla struttura e a costituire la pelle stessa del museo. La proposta curatoriale permette di estendere la ricerca a un intero decennio di arte italiana: gli anni Sessanta. Un indagine rivolta ad approfondire i legami intercorsi con il Gruppo T di Milano, ma anche il reciproco scambio intellettuale avvenuto tra Biasi, Bruno Munari e gli artisti che ruotano intorno all’esperienza di Azimuth/Azimut. Il tutto senza tralasciare i riferimenti a quel Lucio Fontana che ben prima di riportare il suo discorso teorico all’interno di un linguaggio più tradizionale legato ai tagli e ai buchi sulla tela, era stato il primo in Europa e negli Stati Uniti a progettare un ambiente: Ambiente spaziale a luce nera, esposto nel 1949 alla Galleria del Naviglio a Milano.
La mostra ospitata a Palazzo Pretorio ha anche il merito di far luce sul legame intercorso tra Biasi, Munari e Manzoni, come testimoniato anche da alcuni scambi epistolari. Se, infatti, i primi Achromes realizzati da Manzoni tra il 1958 e il 1959 rimandavano ancora a un tipo di pittura informale, a partire dal 1960 in poi le cornici iniziano a ospitare degli oggetti particolarmente curiosi ritrovati dall’artista: negli Achromes compaiono dunque ciuffi di cotone, ma anche forme di pane. Questi ultimi lavori potrebbero aver subito l’influenza della Mostra del pane ideata da Biasi, Massironi e Munari nel 1961; occasione in cui la sede del Gruppo N a Padova venne trasformata in una vera e propria panetteria. Il senso della mostra si fondava sull’idea che ogni differente tipologia di pane realizzato e venduto nelle città italiane, al pari di un oggetto di design di pubblico utilizzo, fosse il frutto di un’operosità collettiva, che definisce criteri estetici e formali ben precisi. Le idee di Munari e Biasi miravano a colpire il mito personalistico dell’artista, la sua autorialità, tematiche particolarmente care allo stesso Manzoni, che furono portate a estreme conseguenze in opere come Le linee o i Corpi d’aria, ma anche Fiato e Merda d’artista (rispettivamente del 1960 e 1961).
A Palazzo Pretorio di Cittadella va in scena un tuffo negli anni Sessanta, e proprio dagli ambienti bisogna ripartire per comprendere la rinnovata attenzione che il pubblico e la critica tributano oggi a Biasi e, in generale, a tutta quell’esperienza artistica che risulta di sorprendente attualità. Sulla scena internazionale l’arte programmata (o optical, cinetica, gestaltica) si misurava con dei movimenti ad ampio raggio, in primis la Pop Art che, come afferma Bartorelli nel testo critico del catalogo, ”Poteva contare sull’impatto dell’icona mediatica, che offuscò le esili, concentrate, meditative meraviglie ottico-cinetiche dell’arte ambientale del Gruppo N”. Inoltre, verso la fine del decennio si andava incontro allo scoppio della contestazione legata al ‘68, che in Italia toccò delle vette molto alte a livello di conflitto socio culturale. L’arte programmata veniva contestata soprattutto per contiguità con il mondo dell’industria; si pensi alla mostra Arte programmata. Arte cinetica. Opere moltiplicate. Opera aperta, proposta a Milano e Venezia nel 1962 a cura di Munari, sponsorizzata dalla Olivetti, e allestita anche a Roma nello stesso anno direttamente all’interno di negozi della fabbrica piemontese (l’introduzione al catalogo in quell’occasione portava la firma di un giovane Umberto Eco, con un saggio intitolato La definizione dell’arte).
Quando Germano Celant diede vita all’Arte povera era sua intenzione contrapporsi apertamente all’arte ricca, integrata al capitale: il riferimento era diretto alla Pop Art, ma anche all’arte programmata. La forte veemenza con la quale l’Arte povera si diffuse in Italia fece successivamente passare in secondo piano l’esperienza artistica del Gruppo N, ma il legame profondo intercorso tra i suoi artisti e il mondo dell’industria non riguardava solamente un appoggio di carattere economico/logistico, bensì un più ampio atteggiamento di fiducia verso il progresso tecnico e scientifico, rigettato da Celant e dai vari esponenti dell’Arte povera. Biasi ha sempre sostenuto che c’è arte quando c’è innovazione, quindi il doveroso tributo che oggi viene rivolto all’arte programmata è frutto anche del notevole potenziamento dei mezzi tecnologici che caratterizzano il nostro tempo, tanto che, chiosa lo stesso Biasi ”i giovani sono convinti che queste opere appartengano a un tempo recente, mentre in realtà hanno oltre 50 anni”. Come dargli torto?
FIno al 6 novembre; palazzo Pretorio, Via Marconi 30, Cittadella; info: www.fondazionepretorio.it