Maurizio Bartolini, 6 di sabbia

”Ieri ho sognato di te. Non ricordo quasi più i singoli fatti, so soltanto che di continuo ci trasformavamo l’uno nell’altro, io ero tu, e tu eri io. Infine, non so come, prendesti fuoco, ma ricordai che il fuoco può essere soffocato coi panni, afferrai un vecchio abito e con questo mi misi a batterti. Ma qui ricominciarono le metamorfosi e si arrivò al punto che tu eri scomparsa, mentre ero io che ardevo e io ancora che battevo con l’abito. Ma ciò non servì a nulla e così era confermato il mio vecchio sospetto che queste cose non valgono contro il fuoco. Intanto però erano arrivati i pompieri e nonostante tutto in qualche modo fosti salvata. Ma eri diversa da prima, spettrale, disegnata col gesso nel buio e inanimata o forse soltanto svenuta per la gioia di essere salva, mi cadesti tra le braccia. Ma anche qui si riscontrò l’incertezza della trasformazione perché forse ero io che cadevo tra le braccia di qualcuno”. Franz Kafka, Lettere a Milena.

Le metamorfosi costituiscono un processo di rigenerazione, l’immagine edulcorata di forme vitali in cui si innescano fisionomie mai univoche di dimensioni estetiche intermittenti. Nella mitologia, nell’iconologia, nella storia dell’arte, la metamorfosi, quella capacità di adattamento nel mutare forma, è stata al centro di indagini, sperimentazioni, introspezioni alchemiche e di investigazioni mentali. Cambiare connotati, assumere l’aspetto morfologico di un essere eterogeneo, di qualcosa che muta la propria epidermide per divenire inedita fisionomia e sconosciuta sostanza. Maurizio Bartolini conosce in profondità l’esemplificazione di una metamorfosi, la sua cura verso la progettazione degli spazi verdi, i suoi retaggi in materia botanica divengono l’essenza e il fulcro portante di una ricerca espressiva che realizza in seno ai suoi studi e alla sua conoscenza tecnica degli elementi naturali.

Una pianta di mirto corazzata di ceramica e la sua entità olfattiva circondano lo spettatore, le radici di vetro narrano di memorie assopite, di metamorfosi evocate, laddove la vita e la morte si intrecciano in uno stretto abbraccio, innescano paesaggi sonori di una grazia irrisolta dove l’equilibrio mistico di uno scheletro insabbiato di tasso genera nuove configurazioni estetiche: un flusso perenne dal mirto alla sabbia, passando attraverso il vetro, che è frutto in ultima analisi di chimiche silicee, dà luce a intricati sentieri rituali, dove nasce un percorso di dolore e di pacificazione. Una nuova metamorfosi si apre allo sguardo, l’artista coglie un’ombra, ne disegna minuziosamente ogni singolo elemento, riproduce la veridicità di un atto d’amore, eppure l’ombra non delinea la presenza del mirto, ne contrasta la reale morfologia, si impossessa di un ambiente avulso dalla sua natura e genera una disuguaglianza, porta in grembo il frutto incolto di un teriomorfismo divino, sacro nella sua intelligibilità. Bartolini celebra un mistero, descrive la configurazione di un intricato labirinto, un hortus conclusus dove lo spirito muta forma e diviene giardino, simbolo di vita e di un legame indissolubile tra l’uomo e la terra. «Dentro di me c’è però un invincibile desiderio, un desiderio folle di una vita che sia molto vicina alla terra. Questo dunque ha vinto su ogni altra cosa, sull’amore, sull’amore del volo, sull’ammirazione e ancora sull’amore. Qualunque cosa del resto se ne dica, ne viene sempre una menzogna. Questa è forse ancora la più piccola. E poi era già troppo tardi».

Fino al 4 luglio; Spazio Y, via dei Quintili 144, Roma; info: spazioy.com