Graham, Calling for the infinite sphere

Calling for the infinite Spere è il titolo della personale di James P Graham curata da Giorgio de Finis del quale riportiamo l’intervento che trovate anche sul catalogo dell’esposizione stampato per Inside Art Autori.

Esiste un’espressione araba (non ricordo più quale) che potrebbe tradursi come l’esercizio di guardare le cose del proprio cortile con occhi nuovi. È questo che fa James P Graham con il suo cortiletto, il Pianeta Terra. E non solo perché si dota di una visione a 360 gradi! Guarda il mondo, James, facendosi ora scienziato, ora alchimista, ora druido, forse anche, in ultima istanza, bambino o galattico. Così mi piace raccontarlo questo artista scozzese atterrato in Italia, come un alieno in visita intento a esplorare e spiare un mondo sconosciuto dentro al suo ”girello” di cineprese o chiuso nella sua ”navicella spaziale” fatta di monitor, finestre aperte su un fuori che è un altrove. È del tutto limitante, a mio avviso, leggere le opere di James P Graham come l’ennesimo tentativo di catturare la bellezza della natura – sia essa il fuoco dei vulcani, l’acqua del mare o il volo notturno della lucciola – sebbene non manchi nelle intenzioni dell’artista la voglia di celebrarla questa bellezza. Come fuorviante sarebbe vedere nell’uso della tecnologia che l’autore mette in campo, una ricerca nella direzione di una restituzione sempre più ”spettacolarizzata” del fenomeno naturale, sfida di tutta la produzione cinematografica documentaristica degli ultimi anni, (pre)occupata a mettere la natura ”in soggettiva”.

Se questo fosse stato lo scopo ultimo di Iddu – la costruzione di un ambiente naturale virtuale immersivo per la stanza di un museo – il lavoro sarebbe già vecchio, superato dall’avvicendarsi di strumenti di ripresa e post- produzione sempre più sofisticati e di nuovi escamotage da dare in pasto a quel pubblico da padiglione delle meraviglie (oggi anche recapitabile a domicilio, via cavo o via parabola satellitare) sempre desideroso, ieri come ora, di farsi illudere e stupire, ma con giochi di prestidigita(lizza)zione mai uguali, pena la fine del teatrino! Perché il tempo che passa e questa mostra (che è appunto una retrospettiva) ci aiuta a capire meglio il lavoro di James P Graham? Mi viene da dire: perché è innanzitutto un lavoro sul tempo. Il fatto che le immagini di Iddu probabilmente non sorprenderanno più l’odierna generazione di bulimici di realtà aumentata ed effetti speciali – l’invecchiare della giostra – ci permette di andare oltre l’effetto luna park prodotto dalla striscia di frame sincronizzati costruita per teletrasportarci in cima allo Stromboli. E vedere la macchina. A pochi anni di distanza la leggerezza dell’immateriale, le immagini virtuali, il software, appaiono meno interessanti, a mio avviso, dell’edificio di tubi catodici, cavi e circuiti realizzato per dar vita allo spettacolo della telecontiguità. Il circo torna circle, l’hardware riemerge, come nel video che James dedica alla struttura megalitica che appare e scompare per effetto della marea; la storia della tecnica e dell’uomo si contrae, la stanza del computer si avvia a diventare strumento muto al pari degli osservatori astronomici edificati dai costruttori di Stonhenge, civiltà che James richiama da un passato che ci appare remoto, per rimetterle al loro posto, vale a dire accanto a noi, gli uomini pronti a colonizzare Marte, e non solo perché accomunati, gli antichi e i moderni, dall’amore per il silicio.

Ne La piccola cosmogonia portatile Raymond Queneau liquida la vicenda umana con un verso: ”La scimmia senza sforzo diventò / l’uomo, che un po’ più tardi disgregò l’atomo”. Fine della storia. Perché siamo oramai in grado di decidere della nostra estinzione e per il dato antropologico che il cammino evolutivo dell’uomo si interrompe per cedere il passo a quella che potremmo definire una ”biologia delle macchine”. Ma le opere di James sono Memento mori ”specie specifico” soprattutto perché mettono a confronto due tempi, quello del mondo e il nostro. Le sequenze di polaroid scattate nell’arsenale atomico dismesso di Albion in Francia ci ricordano certo che viviamo sotto la spada di Damocle dell’Olocausto nucleare, ma anche che ciò che può causare rovina, rovina a sua volta. Invecchiano le strutture militari, e i silos che hanno ospitato le testate megatoniche si fanno prima archeologia e poi deserto, natura, senza che nessuna bomba sia stata fatta esplodere. Siamo un accessorio anche per la nostra sparizione. Guardando la prima volta Losing Seahenge ho trovato strano che dal video l’autore non avesse escluso la parte in cui un uomo incurante della telecamera e del fenomeno che si sta documentando – la magia della marea che ogni giorno inghiotte un altare circolare di pietra dell’età del bronzo – si aggira tra gli scogli alla ricerca di mitili. Mi sono chiesto: perché James, tanto più che la sequenza è velocizzata, ha accolto l’intruso? Perché non ha tagliato in montaggio quell’attraversamento non previsto del quadro? Lo scattino che avrebbe prodotto il cut sarebbe stato notato solo dall’occhio più attento. Poi ho capito che questo non era un ”errore”, una svista, ma la chiave per decifrare l’opera. Che ci mostra due tempi diversi in azione, quello del mare che avanza e quello dell’uomo che passa ed esce di campo. I due tempi si ignorano, è la ripresa velocizzata che li mette in relazione. Il tempo dell’uomo attraversa il tempo della natura senza quasi lasciare traccia. Se poi dalle maree alziamo gli occhi al cielo, seguendo la traiettoria che le parabole disfunzionali ci indicano, le distanze si fanno incomparabili. Le antenne satellitari specchianti che danno il titolo alla mostra sono totem, menhir, altari che anelano al cielo, una comunicazione con le “sfere infinite” che non è materia che attiene alla sfera tecnologica, per quanto la nostra epoca sia disposta a celebrarla.

Le domande che pone e da cui muove James P Graham sono in fondo quelle di sempre, di volta in volta declinate da religione, filosofia e scienza, chi siamo, dove andiamo, siamo soli nell’universo? C’è la possibilità di una Natura senza quell’accidente della storia del mondo (l’uomo) capace di esperirla? E come fare a seguir virtute e canoscenza lasciandosi alle spalle le colonne d’Ercole del proprio paradigma, o forse della propria storia naturale? Per viaggiare nel tempo oltre che nello spazio, come nella sequenza finale di 2001 Odissea nello Spazio, alla ricerca del mistero dell’universo o solo (tornando a casa dal lungo viaggio) di quello della nascita umana? Da quanto detto sopra si capisce anche perché abbiamo voluto collocare questa mostra in un edificio storico come Palazzo Cozza Caposavi; le sale di questa residenza della metà del sedicesimo secolo ci aiutano a cogliere nelle opere di James P Graham lo stesso spirito che fu all’origine dello studiolo di Cosimo I, delle prime wunderkammern, dei proto-laboratori scientifici, dei gabinetti di storia naturale, quando la storia naturale ancora non era una disciplina separata dal resto della conoscenza, e ci si poteva interrogare delle cose della natura e di quelle dell’uomo e di Dio senza paura di illeciti sconfinamenti.

Dal 21 giugno al 21 settembre; palazzo Cozza Caposavi, Bolsena