Non gli piace lasciare le cose a metà. Nessuna delle idee di Simone Cametti esce dalla sua testa senza essere già completa, formata. Può starci mesi, anche anni lì dentro, ad attraversare il cervello in lungo e in largo, ma quando lui la tira fuori deve essere finita e, possibilmente, unica. Niente bis, repliche o copie. Perché le idee e le azioni umane sono irripetibili. E poi perché trovare linguaggi sempre nuovi dai quali provare a tirar fuori altrettante idee per Simone è un gioco, anche quando sembra abbia smesso di giocare. Le sue opere ricordano vecchi passatempo, come i regoli, shanghai, tetris, ma ciò che preferisce è trasformare: la materia in luce, la forma in colore. Un linguaggio artistico in un altro. «Mi interessa – dice Simone – interagire con le arti. Far diventare una scultura una fotografia, un video una pittura. Mi piace giocare con l’immagine, il significato e il suo ribaltamento».
In una parola, ready-made. Come lo usi? «Lavoro su oggetti semplici, perché la lettura visiva delle mie opere sia immediata. Do importanza al materiale pur nascondendolo, in particolare nella scultura, come per le ante realizzate in marmo del Guatemala. Se il materiale ha il suo valore, mi piace ribaltarlo oppure ancora trasformarlo, facendolo diventare solo un gioco colorato ma mi interessa anche trasformare un oggetto privo di valore in un’azione, come ho fatto con Tavolo e due bacchette d’ebano. Performance in cui, mediante l’azione di sfregamento tra i due diversi tipi di materiale, ho acceso un fuoco».
Come nasce invece il tuo interesse per il paesaggio? «Nasce quando prendo in mano la fotografia. Mi sono domandato quale fosse, sia in fotografia che in pittura, il soggetto più scontato che si potesse portare in una galleria: il paesaggio, che sta all’origine della fotografia stessa. Così ho voluto occuparmene in chiave contemporanea e, volendo dare rilevanza all’azione, ho iniziato delle camminate nella natura, dipingendo paesaggi a modo mio, colorando tutto con pigmento verde. Ma per non dimenticare la trasformazione, ho anche deciso di fare diventare la fotografia una performance, e viceversa».
Qual è il tuo rapporto con il passato, artistico, storico e personale? «Il progetto in cui ho posizionato il tricolore sulle principali vette dell’Appennino, oltre ad essere una critica all’inspiegabile timore della gente dinanzi a quei tre colori, nasce da una foto autografata che ho ritrovato e che ritraeva Achille Compagnoni, il primo italiano a conquistare il k2, la seconda vetta più alta al mondo. Mio nonno, che lavorava in Rai, me lo aveva fatto conoscere quando ero piccolo. Così, quando ho rivisto questa foto, ho voluto tirare fuori da lì qualcosa. L’azione di un uomo che pianta una bandiera non perché nazionalista, ma semplicemente perché italiano. Un italiano dinanzi al processo umano della conquista. Questo per dirti che mi interessa molto cercare nel passato. Scavare nella storia dell’uomo e nella mia, e vedere cos’altro ancora possono raccontare».