Matteo Nasini

Roma

Matteo Nasini è un musicista che ha demandato al non umano la possibilità di suonare un suo strumento. Con corde e cassa armonica costruisce arpe eoliche. Lascia al vento la direzione di una composizione mai stata scritta. Musica aleatoria per superare la forma sonora, idea così umana che per stravolgerla necessita l’inumano: il caso, il vento. «Intervenire sul compositore – dice Nasini – può ancora avere un senso. Se metti come esecutore il vento, ti restituisce un suono, in una forma, che non è più codificabile. La canzone, l’opera, la sinfonia sono forme sonore create dall’uomo che nel corso dei secoli si sono definite. Mentre casuale è il massimo della codifica che possiamo dare al vento che suona».

È anche pensare il vento in un altro modo. «È un lavoro che ha a che fare con la trasformazione, come il passaggio da vento a suono e della corda da stasi a movimento. Nella vibrazione delle corde c’è poi un interesse per gli infrasuoni, onde sonore che non riusciamo ad ascoltare ma che questi oggetti riescono a trasmettere. Una corda ferma che viene investita dal vento comincia a vibrare, inizialmente non la senti, quando arriva a 18 vibrazioni al secondo diventa udibile. Il nostro cervello registra presenze fin dalle 12 vibrazioni e assimila un suono che in pratica ancora non sentiamo».

Questo intendi con «il suono nasce ma non inizia»? «Sì, un suono che sorge dal non udibile all’udibile, non ha fine e non ha un vero inizio. Questa soglia delicata porta con sé una serie di questioni percettive che si riflettono sulle modalità d’ascolto. È importante una sorta di sorpresa che eviti un rapporto frontale con lo strumento. Se hai già la consapevolezza di trovarti davanti un oggetto del genere, ti aspetti qualcosa da lui: che suoni. C’è un crollo della poesia percettiva su cui sto lavorando, Athanasius Kircher pensava che queste arpe dovessero nascondersi e cogliere di sorpresa l’ascoltatore, ignaro della fonte e del suono che sorge invece di iniziare».

C’è un collegamento fra le arpe e i tuoi arazzi? «Nascono da un disegno. Nel caso dell’arazzo, traccio segni sulla stoffa che poi gonfio aggiungendo lana. Il disegno così acquisisce una tridimensionalità e si mimetizza fra le cose. La scelta cromatica è una scelta sonora, un discorso armonico: la costruzione di un impianto di note o di colori. La musica è sempre un qualcosa di confini vicini, sono sempre poche cose. Quando ascolti una composizione, cambia una nota e cambia tutto, diventa un’emozione diversa. Equilibri e strutture molto fragili che cercare di riportare in una dimensione cromatica è sempre, per me, qualcosa di molto delicato, di colori molto vicini, mai qualcosa di violento che al massimo è dato da un solo elemento. La mia, se così possiamo dire, è un’arte visiva inquinata».

Cosa provi quando suoni la tua musica e cosa quando suoni quella di un altro compositore? «Accanto alla produzione di arpe eoliche, compongo musiche che a volte eseguo in performance anche con non musicisti. In questo caso il rapporto fra l’ascoltatore e il compositore è più diretto, nel caso di un’orchestra è forse più filtrato. In ogni caso è fondamentale un sentimento di cedevolezza».

Cedevolezza? «Lavorando spesso con non musicisti in ensemble estemporanei, per tirare fuori qualcosa che possa arrivare all’ascoltatore, quello che deve governare è la cedevolezza: non andare a tempo o fare l’accordo esatto. C’è un processo che puoi codificare quanto vuoi ma è soggetto a un momento preciso in cui tutto cambia. Provi e riprovi ma quando arrivi al dunque ci sono 100 persone che in prova non c’erano, hai provato in una stanza e invece è un’altra. È tutto diverso. Come fai a riprendere il controllo? Devi cedere all’ambiente, devi far entrare queste novità che prima non c’erano. Se resti rigido, sicuramente seguirai, farai il compitino, andrà bene, con l’applauso e tutto, ma ti resta poco. Bisogna cedere all’ignoto».