Gianni Politi

Roma

Ogni uomo, per arrivare al successo, deve prima passare attraverso numerosi tentativi fallimentari. Non si tratta di un paradosso, è il naturale corso delle cose. Quando si ha a che fare con un artista, poi, l’affermazione è ancora più inconfutabile, se è vero, come scrisse Samuel Beckett, che “essere artista significa fallire”. Il fallimento fa parte del mondo creativo, fuggirlo equivale a disertare, non resta perciò che fare di quest’ammissione una nuova occasione. Il lavoro di Gianni Politi acquista consapevolezza proprio dall’esercizio di quest’atto di fedeltà, per il quale, a partire dall’insuccesso di una serie di nature morte, il pittore si allontana dalle albertiane costrizioni figurative, per percorrere le vie dell’astrazione, in un piano in cui la memoria, comune e sua, non viene rinnegata, ma si carica di nuovi, più potenti, significati stratificati.

Cosa ti ha fatto avvicinare alla pittura? «Nel momento in cui ho scelto di fare il pittore, sapevo di andare di pari passo con la storia dell’uomo. La pittura, se la guardiamo da lontano, è lo specchio della storia dell’umanità, la possibilità di raccontare la realtà a prescindere dal soggetto, proprio come faceva William Turner».

Eppure non ti definisci pittore. «Ho giocato molto su questa definizione; ora mi considero solo un pittore. Quando ho iniziato a dipingere, non avevo nessuna formazione accademica, guardavo ai maestri dell’Ottocento e cercavo di sopperire alle mie mancanze con tentativi pratici nell’ambito della figurazione: il ritratto, lo studio dell’anatomia e la natura morta. Ecco, in realtà posso dire che molti dei miei quadri nascono dal fallimento di una serie di nature morte».

In che senso? «Una volta terminata la serie di nature morte, mi sono accorto che non mi convinceva affatto. Quando si dipinge, ci si può concentrare sulla tecnica o sul soggetto. Mi ero intestardito sulla riproduzione della figura. Al contrario, gli scarti astratti che giacevano spontaneamente sul pavimento, i foglietti usati come appoggio per i colori, le carte da spolvero, tutte quelle superfici su cui erano rimaste impronte, segni del tempo e dell’usura, mi piacevano di più delle opere alle pareti. Così ho distrutto le nature morte».

Le hai buttate via? «No, tutte sono state in qualche modo integrate e riutilizzate: alcune le ho riassemblate, di altre rimane solo la traccia; ora sono diventate nuove tele in grado di raccontare una storia».

A proposito di storia, il passato e la memoria sono temi costanti della tua ricerca. «Le immagini che si compongono sulla tela hanno sempre a che fare con un’esperienza connessa col tempo. Un quadro guarda al passato, anche se si tratta di un passato recente; in un certo senso è una porta tra ciò che c’è prima e ciò che viene dopo».

Una volta hai detto «non sono un artista che trova interesse nel mondo», cosa intendevi? «La mia è una lettura solitaria, non relazionale. Difficilmente credo che il mio lavoro possa farsi influenzare da elementi, da eventi esterni. Mi spiego, se domani iniziasse una guerra, non la dipingerei ma vorrei che dopo vent’anni, riguardando i miei quadri, la gente ci vedesse comunque quello che è successo. Come Ritiro delle truppe USA dall’Afghanistan di Luca Bertolo, per me il più bel quadro politico».

Com’è cambiato il tuo approccio all’immagine e quale direzione sta prendendo? «Dopo i primi tentativi figurativi, mi sono reso conto che, a parte il ritratto di mio padre, non mi interessava dipingere altro, né ci riuscivo. L’elemento distruttivo della mia pittura nasce quindi dalla capacità di trasformare la mia incapacità di riproduzione di un ritratto. Avendo esaurito le immagini da dipingere, ciò che conta non è più il soggetto, ma il processo. Quello che mi interessa è il detrito, il colore, il riuso costante a partire da una matrice, fino ad ora le nature morte».

E quando non ce ne saranno più? «Sto realizzando nuovi lavori, diversi ma in linea con lo stesso concetto di matrice: cornici su cui viene incollata una tela precedentemente dipinta sulla matrice ricavata da un altro supporto. Sono opere religiose, sacre nel senso che dava Lucio Fontana alle sue tele con un buco al centro. Per un’etica d’artista mi sono dato dei limiti: per ogni mostra che farò mi sono promesso di realizzare lavori nuovi. Ma in pittura è anche importante fare un discorso coerente con il proprio stile e chiedersi: cosa dovrebbe fare un pittore oggi per essere contemporaneo?»

Cosa dovrebbe fare? «Deve lavorare, fare pratica. Oggi c’è un continuo bisogno di creare artisti, che arrivano al successo presto e facilmente, molto di più rispetto al passato. A me il successo piace accarezzarlo, come quando incontri una bella donna. Puoi portartela subito a letto, ma poi c’è il rischio che non duri. Altra cosa è impegnarsi per tutta la vita. A me interessa costruire un linguaggio. Ché poi, alla fine, l’ambizione di tutti gli artisti è quella di restare nella memoria».

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