Chiara Mu

Roma

L’arte è una questione di incontro, di punti anche distanti che entrano in contatto. L’arte è una questione di impatto, reazione, azione. Lo sa bene Chiara Mu, che con il suo lavoro parla di un’eternità intesa come spazio site-specific.

Quale forma espressiva prediligi? «Mi ritengo un’artista che ha una pratica site-specific, legata al contesto dove opera: per questo mi sono data una grande libertà rispetto ai mezzi che utilizzo. Mi identifico nei lavori installativi che faccio, perché dicono molto della mia formazione. Sicuramente l’aspetto performativo, che spesso tende a essere molto relazionale, è quello che ha una forza comunicativa immediata. Fotografia e scrittura mi appartengono in modo viscerale: le mie prime esposizioni nascono come mostre di fotografia e tendo a scrivere i progetti prima di realizzarli. Per From here to eternity ho allegato una bibliografia di testi sulla filosofia estetica: è un modo come un altro di appropriarmi delle parole per poi trasmetterle».

A proposito di trasmissione, ti definisci una traduttrice. «Il mio modo di rapportarmi allo spazio è tradurre quello che intendo in una chiave che sia comprensibile agli altri. Credo che l’arte sia sempre alla base un atto di traduzione del reale: interpretiamo quello che abbiamo accanto e ne creiamo una visione diversa. Non credo all’arte per l’arte, nella mia testa è difficile immaginare l’idea di avere una purezza interna che si traduce in qualcosa che non arriva dall’esterno. Non facciamo altro che filtrare quello che arriva da fuori e tradurlo in una chiave immaginifica per l’altro».

I tuoi esercizi di visione in questo senso sono una forma di traduzione. Ti piace più prenderti cura del visitatore o viceversa? «Nel momento in cui apro una dimensione di incontro e metto in mezzo un contenuto nel quale il visitatore può entrare, è la sua capacità di interagire con il contenuto che lo definisce. Quello che ho fatto per From here to eternity è stato accompagnare per mano ogni visitatore offrendogli una visione circolare dello spazio, riprendendo gli elementi usciti durante la sera dell’opening da persone diverse da me. Tento di mostrare in maniera analitica i vari elementi di quel luogo per restituirne una radiografia emozionale. Per ogni persona dico cose diverse e provo a stimolare l’altro mettendo in gioco la sua dimensione della memoria. Nell’esercizio di visione il prendersi cura è reciproco, non vedo una dicotomia».

Ogni incontro quindi è uno spunto per l’esercizio successivo? «Alcuni degli incontri mi hanno condizionato molto nel riscrivere il percorso che sto seguendo. Mi è capitato di trovare persone ostiche e il mio compito è stato di estrema morbidezza in quei casi. Viceversa, quando mi sono resa conto di essere troppo riempitiva, ho provato a stimolare l’altro, per evitare che subisse la mia presenza. Rimangono delle tracce tra un esercizio e l’altro ed è per questo che ho fatto una visita alla volta ma tante ogni giorno. Questo lavoro ha grandi bellezze e grandi difficoltà: una di queste è che non so ripetermi. Mi piace l’idea che la performance sia un momento in cui il visitatore si mette in discussione».

Se il tuo è un lavoro fatto di momenti, cos’è per te l’eternità? «L’eternità è quello spazio ideale che ti contiene, ti vede nascere e morire. Per me l’eternità è una riflessione sull’incrollabilità dell’architettura che ci sopravvive nel tempo. Siamo noi che siamo in grado di scrivere la nostra eternità con il nostro agire e lo spazio è quel luogo in cui noi la costruiamo».