Parla Gillo Dorfles

Con il suo fare da professore entra ed esce da casa, un palazzo signorile nei pressi di corso Buenos Aires, a Milano. Si muove per le strade del suo quartiere da solo, senza sentire realmente il peso dei 105 anni che compirà a breve, il 12 aprile per la precisione. Capelli bianco neve, sguardo sveglio, indagatore, critico, curioso, Gillo Dorfles si prepara così a festeggiare il suo nuovo compleanno, forse con un bicchiere di grappa e qualche cioccolatino, prelibatezze che suole offrire a chi lo intervista. Osservare nei suoi occhi è come guardare un secolo intero con i suoi mutamenti, le sue trasformazioni storiche, culturali, artistiche. Della vita privata non ama parlare perché vuole che rimanga intima, segreta. Cosa dovrebbe dire, in fondo? «Chi mi ha schiaffeggiato la prima volta? Quale donna ho baciato per prima? In cento anni di vita ci saranno altrettanti episodi. Dovrei ricominciare dai cinque anni e ripercorrerli tutti… Posso dire solo che ho studiato per diventare professore all’università. Ho fatto il docente di estetica per tutta la vita. La mia carriera universitaria è stata la cosa più importante che ho fatto», sottolinea. Ripensando al periodo della Seconda guerra mondiale ricorda: «A un certo punto ci sono stati i bombardamenti e sono andato via da Milano, sono finito in Toscana. Ci sono rimasto fino a che è passato il fronte. Ma – mette in chiaro il professore – preferisco non ricordare i miei anni e che non si ricordino continuamente, dato che sono fin troppi. Mi pare sia una cattiva idea quella di vivere troppo a lungo».

Così, nella sala della sua casa studio, nella riservatezza delle pareti domestiche, tra capolavori di Melotti, Fontana, Capogrossi, Scialoja, Fioroni e Accardi, seduto sul suo divano, davanti a un pianoforte a coda che ama suonare quotidianamente, preferisce parlare della sua arte in quanto pittore: «Il mio interesse non è solo per l’opera d’arte, anche se musica, pittura, letteratura mi hanno sempre occupato, ma per l’umanità come tale. Prima di studiare l’arte è meglio studiare l’artista». Riguardo al mondo abitato dall’uomo in questi ultimi cent’anni e ai suoi cambiamenti, afferma: «C’è stato un periodo di estremo aumento della tecnologia con la scoperta dei nuovi sistemi elettronici, questo ha trasformato il modo di vivere e anche, in un certo senso, di creare». Il consiglio per un miglioramento esistenziale e artistico dell’essere umano è «di non abbandonare la visione diretta del mondo, lasciando un po’ in disparte l’eccesso tecnologico e scientifico». Essendo una personalità poliedrica, Dorfles è laureato in psichiatria, filosofo, poeta e, oltre a essere artista, è un critico d’arte che ha lasciato un segno nel Novecento.

In questa veste ricorda che tra i vari mutamenti dell’arte del secolo passato, «dal futurismo all’arte programmata, dal Mac all’arte concettuale, alla poesia visiva eccetera, il primo è stato il movimento più importante del secolo, perché ha creato un nuovo modo di vedere l’arte. Prima era soltanto tradizionale, con il futurismo è cambiato l’atteggiamento». D’altra parte Dorfles è autore di numerose monografie su artisti di varie epoche (Bosch, Dürer, Feininger, Wols, Scialoja) e di diverse pubblicazioni, come Il divenire delle arti (1959), Nuovi riti, nuovi miti (1965), Ultime tendenze nell’arte d’oggi (1961). Quest’ultimo volume, seppure datato, offre l’opportunità di confrontarsi con uno spaccato dell’arte italiana contemporanea che va dalla pop art all’arte materica, dallo spazialismo al concettuale, fino al postmoderno.

Dal punto di vista creativo, invece, i cambiamenti più importanti nella sua carriera di pittore si possono riassumere così: «In linea di massima ho fatto parte, insieme a Luigi Veronesi, Bruno Munari e Atanasio Soldati, di quel movimento di arte non figurativa che si chiamava Mac, Movimento d’arte concreta. Quello è stato un episodio importante, quel movimento voleva sostenere l’arte non figurativa in un periodo in cui c’era ancora un eccesso di figurazione. La mia pittura non era figurativa ma abbastanza coordinata. Oggi è diventata man mano più plastica, più mobile, meno legata agli schemi. Penso che negli ultimi anni mi sono staccato da quel periodo iniziando una fase che posso considerare personale». La sua ultima mostra, Ieri e oggi, a cura di Luigi Sansone, ha chiuso i battenti a fine febbraio alla fondazione Marconi, a Milano. «Riguarda la mia attività degli ultimi tempi. Sono molto soddisfatto, c’è stato un grande afflusso di pubblico – dichiara – che poi questo sia stato positivo o negativo non so, perché non ci si può fidare dei giudizi della gente. Ci sono stati anche dei dibattiti che hanno visto la partecipazione, oltre che del curatore, di Claudio Cerritelli, in cui si è discusso delle mie opere, con osservazioni in parte buone e in parte cattive». In mostra alla fondazione Marconi gli ultimi trent’anni della sua produzione, con una trentina di opere tra sculture, ceramiche e pezzi realizzati con tecniche miste su cartoncino. L’universo immaginario di Dorfles, abitato da conformazioni primigenie, già apparse nelle sue opere passate, rivive anche nei nuovi acrilici su tela come Circonvoluzione (2011), Strega marina (2012), Letargo (2013).

I suoi ultimi dipinti hanno un che di psicologico alla base, qualcosa che ha a che fare con un discorso psicoanalitico; ricordano dei sogni che vengono a galla, qualcosa di onirico. Arturo Carlo Quintavalle sulla Lettura del Corriere ha riflettuto sull’esposizione in questi termini: “I suoi ultimi quadri nascono non dalla psicoanalisi freudiana ma da una distinta consapevolezza della psicologia della Gestalt intesa come trasformazione della forma e del senso dei segni del tempo, dunque del loro notevole valore simbolico studiato da Carl Gustav Jung in Simboli della trasformazione”. «Il giudizio degli altri per me è misterioso – ribatte il professore – il fatto che possano ricordare qualcosa di non materialistico mi fa piacere». L’atto creativo che gli ha permesso di realizzare i suoi quadri passa «attraverso disegni e schizzi, prima di arrivare alla pittura vera e propria. Il primo abbozzo – spiega – può essere onirico o fantastico; è il primo germe di un’opera che deve essere costruita anche razionalmente. Naturalmente i colori sono quanto di più personale si può immaginare. Io uso quelli che considero più adatti all’espressione di me stesso».

Articolazioni, una delle sue ultime creazioni del 2013, nasce da uno sfondo viola e mette in luce la potenzialità di due colori, il giallo e il marrone, che interagendo l’uno con l’altro sembrano dare alla luce un personaggio alato dalle fattezze equine, all’interno del quale occhi si muovono nella forma. Contorsione, ancora del 2013, invece, è una scultura policroma di grandi dimensioni, creata in vetroresina, che possiede una gemella in terracotta smaltata e graffita di dimensioni nettamente inferiori. Attraverso una torsione plastica e l’apporto di colorazioni forti e suggestive viene alla luce un essere, oserei dire, soprannaturale. Dorfles disegna dal tempo della scuola. «Ho sempre desiderato di essere, o di fare, il pittore. Più di qualsiasi altra cosa e non pensando certo ai successi, onori o guadagni che l’arte può dare. L’atto di disegnare e dipingere è stato per me, sin dall’infanzia, qualcosa di quasi coercitivo e mi ha obbligato a riempire di sgorbi le pagine dei miei libri scolastici, il legno dei duri banchi delle medie, la sabbia delle spiagge estive. O erano mirabili invenzioni? Ho dipinto da sempre, si può dire. Al ginnasio facevo degli sgorbi a margini dei libri di testo. Dico sgorbi ma in realtà li tenevo da conto anche allora, alcuni compagni li ammiravano molto, erano originali. Ho continuato a disegnare finché ho fatto veri e propri quadri, intorno ai vent’anni. A tempera, a olio. Li tenevo per me, aspettando il futuro». Ora che quel futuro è presente, Dorfles intende viverlo «possibilmente» a lungo, senza curarsi troppo del passato.