Picasso e Vuitton: Parigi tira, Roma dorme

Il restaurato Musée Picasso e la nuova sede della Fondation Louis Vuitton sono vere eccellenze. Profondamente diversi ma entrambi prova, l’ennesima, di come la Francia sappia usare cultura e creatività come leve per sostenere la propria storia, la propria economia, la propria grandezza. Visitarli fa bene all’anima, ma non allo spirito. E spiego il perché. Il filo rosso che fa di Parigi una capitale straordinaria è proprio questa capacità di saper rinnovare se stessa restando sempre nello stesso solco. Dal Beaubourg di Renzo Piano alla piramide di vetro di Ieoh Ming Pei, propileo di quel tempio della cultura che è Louvre, fino al Museo d’Orsay di Gae Aulenti, sono molteplici – forse infinite – le prove di questa visione politica e sociale dell’uso della cultura.

Il nuovo museo con la più grande collezione di opere di Picasso così come il museo voluto da Bernard Arnault sono altre due pietre miliari dello stesso percorso. L’Hotel de Salé, nome originario del palazzo che ospita il museo, è in pieno Marais, il quartiere storico nel centro di Parigi. È suggeribile prima una visita lenta, per gustare la bellezza del palazzo e la genialità di ogni singola opera, e poi una seconda più veloce. Rivedere tutti quei lavori in fila, l’uno dopo l’altro, è come ascoltare un racconto leggendario. Il talento di un pittore come strumento magico che attraversa la materia, il tempo, la storia. E un sentimento altrettanto forte lo si prova visitando la Fondation Louis Vuitton, spettacolare costruzione dell’architetto Frank Gehry, che il presidente di LVMH Arnault, è riuscito a far erigere in pieno Bois de Boulogne, parco nel cuore del quartiere più esclusivo della capitale, Neuilly sur Seine. L’architettura è di per se un’opera d’arte e ciò che si vede dentro non tradisce le aspettative: dalla rosa di Isa Genzeken alle immensità di Gerhard Richter, dai colori di Ellsworth Kelly fino alle caleidoscopiche luci di Olafur Eliasson, tutto è spettacolare. Non è la storia di un genio come quella che si legge da Picasso, ma il progetto di un imprenditore accorto che vive di creatività e che usa con intelligenza la stessa arma per esaltare la sua azienda, la sua città, la sua nazione. «Un nuovo eccitante capitolo per Parigi», ha commentato Arnault.

Questo è ciò che colpisce: una visone vincente dell’uso della cultura che mette insieme pubblico e privato, nell’interesse di tutti. Questa, naturalmente, è la parte che fa bene all’anima. Gli accessi di bile che alterano lo spirito vengono invece pensando a casa nostra, all’incapacità di sfruttare le nostre risorse, le nostre potenzialità. A un paese che i mecenati li fa scappare e che i musei anziché aprirli li chiude. A una nazione che alla sua risorsa più importante destina sempre uno zero virgola delle sue spese. È un paragone immediato ma è anche una storia vecchia, trita, che fa male solo raccontarla ancora e ancora una volta. Aspettiamo solo che Renzi e Franceschini, la cui determinazione lascia qualche speranza, si giochino le proprie carte. Poi, se avranno fallito anche loro, arriverà una troika qualunque che, comprandoselo, trasformerà questo paese nel museo più bello del mondo. Così, come lo spagnolo Picasso è finito a Parigi, i De Chirico, i Burri, i Fontana e lo stesso Colosseo finiranno in una Strasburgo qualsiasi.