Nella Vienna a luci rosse

Sono le 24.00 a Calcutta quando parliamo con Alessio Maximilian Schroder, il giovane fotografo romano si è da poco trasferito in India dopo aver vissuto e lavorato dieci anni tra Austria, Belgrado e Tel Aviv. Lo abbiamo intercettato per parlare del suo ultimo progetto fotografico Pornè, esposto al Festival internazionale di fotografia di Tel Aviv nel 2014 e ambientato nella Vienna a luci rosse, durato dal 2010 al 2013.

Come è stato scattare Pornè?
«Ho voluto assumere lo sguardo del cliente, quindi ho fatto di tutto per riuscire a rimanere distaccato. Non lavoro con modelle amici o parenti, ho bisogno di essere uno sconosciuto e di avere uno sguardo voyeuristico ma imparziale. Quando le chiamavo per incontrarci non si aspettavano un ragazzo giovane. È stata una novità per loro e un nuovo gioco per me, non ho mai fotografato il nudo così tanto: la prostituzione era un veicolo interessante, sceglievo i soggetti più rappresentativi sui giornali di annunci, mettendomi sin dall’inizio nei panni del cliente».

Quindi si è instaurata quasi una collaborazione con le tue modelle.
«Assolutamente si, senza non sarebbe stato possibile scattare. Il mio non era un lavoro studiato a tavolino, ha preso forma grazie alla mia determinazione e alla loro disponibilità a partecipare. Ogni modella non poteva dedicare troppo tempo agli scatti come le professioniste, facevo solo un incontro (al massimo due, ma raramente) e poi lo shooting. Cercavo di mantenere sempre un distacco e una serietà professionale, volevo indurle ad assumere l’atteggiamento e lo sguardo di chi sta “prestando un servizio” e vuole finire il prima possibile. La prostituzione mi attirava anche perchè mi piaceva l’idea di riuscire a collaborare, gratuitamente, con qualcuno che di solito si faceva pagare. Alla fine è nato un rapporto innanzitutto umano».

Hai mai dovuto pagare?
«Solamente una volta, in una situazione piuttosto delicata e triste, la padrona di una ragazza mi ha chiesto 40 euro per lei e 40 euro per il tempo della ragazza. Una volta chiusa la porta, la ragazza mi ha restituito soldi: le faceva piacere partecipare al progetto e non voleva denaro».

Spiegaci perché si parla della prostituta come pegno, nel catalogo di Pornè.
«Il corpo nella mia serie non è mero oggetto di scambio, ma è rappresentato come un passaggio di valore, una transazione, la rivalutazione del corpo avviene al momento della richiesta da parte del cliente, fino a quel momento il corpo è un pegno, poi c’è la svalutazione. Nel catalogo c’è una citazione di Robert Menasse (tratta da Girardi Road Chronicles ndr): «Come si potrebbe altrimenti catturare l’atmosfera che impregna questa città, se non con la danza in circolo dei termini: teatro, prigione, storia dimenticata e repressa. Apparenza luminosa ed esistenza torbida […] Questa è la storia di una casa e, in breve, la storia della Vienna di questo secolo».

Nel tuo lavoro fotografico è dunque racchiuso il senso della società che vuoi rappresentare.
«Sì. Volevo rappresentare una società dove vige un’incomunicabilità di fondo, chiusa nell’esternare i propri sentimenti, molto fredda e con parecchie difficoltà a relazionarsi al di fuori di certi meccanismi formali. Ogni modella coinvolta è il riflesso della domanda».

Il lavoro si intitola Pornè, ma non ha nulla a che vedere con il porno.
«Il termine prostituta, in latino prostitutus, indica colui che è esposto, sia per essere ammirato che per essere deriso. Nel riferimento terminologico originario il senso è quindi quello di donna in mostra, esibita. Invece ho scelto Pornè, prostituta in greco, perchè aveva un’accezione diversa, richiamava ad un ruolo diverso all’interno della società di allora».

C’è qualche punto di contatto tra il tuo lavoro e la fotografia erotica?
«Ci sono sicuramente alcuni ingredienti (il voyeurismo, i corpi nudi o vestiti in maniera provocante, le ambientazioni, il sesso), ma l’effetto non è erotico se non in rari casi, perché non è erotica l’intenzione della mia fotografia. Non ho fotografato solo corpi belli o avvenenti e non mi sono dato l’obiettivo di ottenere un risultato gradevole o eccitante: il mio lavoro è partito da una ricerca ed è rimasto tale. Nel mio modo di pensare l’approccio è carico, carnale, c’è erotismo nella comunicazione, il sesso in questo momento passa in tutti i linguaggi contemporanei e sarebbe impossibile negarlo».

Dall’Austria a Calcutta il passo è tutt’altro che breve, cosa ci sei andato a fare in India?
«Ero venuto qui altre volte negli ultimi quattro anni cercando uno stacco da Pornè, volevo parlare della sessualità ma è complicato: è complicato in generale entrare nelle case della gente, figurarsi nelle stanze da letto. Mi aveva affascinato molto anche la storia delle Hijra, i vecchi eunuchi delle corti, ma vivono in comunità ristrette, con gerarchie a parte: per il mio modo di lavorare, cioè a diretto contatto e senza intermediari, risultano quasi inaccessibili. Insomma entrare nel vivo della sessualità dell’India come la vorrei raccontare io è difficilissimo, adesso mi sono immerso nella vita locale alla ricerca di contatti per continuare con i miei progetti. In India c’è un rapporto con il sesso a dir poco bizzarro, fatto di contraddizioni fortissime. Ad esempio, l’anno scorso qui è stato riconosciuto il terzo sesso, ma al contempo il rapporto omosessuale è severamente vietato, proprio punito dalla legge. Al momento mi sono stabilito qui, cercavo uno stacco dalla Mitteleuropa e l’India mi sta regalando una vita che mi auguravo».

Come proseguirà la tua ricerca in un contesto culturale completamente diverso da quello della capitale austriaca?
«Il volto di Calcutta e di tutta l’India è in continuo cambiamento, questo mi ha portato ad avere un passo diverso, più veloce, ho mutato il punto di vista sulla società indiana, un mondo in cui vorrei muovermi con rispetto. Non è detto che si tratterà di scattare foto di nudo, il proseguimento di Pornè ha a che fare soprattutto con l’impostazione del mio lavoro, probabilmente il terzo genere può essere una chiave di lettura della società indiana contemporanea».