La lezione di Jean Clair e del sicomoro

Come al solito, alla fiera del libro di Torino, il grande critico francese Jean Clair, raffinato e aristocratico, è stato dirompente. Le sue analisi accese e appassionate sono state denunce senza appelli contro le degenerazioni dell’arte contemporanea. La civiltà occidentale conosce un declino dal quale non si vedono attualmente vie d’uscita. Purtroppo abbiamo perso il culto come origine di senso dell’esistere umano: «All’origine, lo stesso termine latino significava “coltivare” e “abitare”. La cultura è il potere di abitare il mondo, di rendere il mondo abitabile. Ma è il culto, non la cultura, che ha fatto sì che il mondo diventi un luogo abitabile; la cultura non è che una declinazione, e senza dubbio un indebolimento del culto. Sono gli dei che scelgono e si compiacciono di abitare un luogo (colere), e ne diventano i protettori naturali. In cambio, gli uomini che hanno percepito quella presenza divina, rendono un culto al Dio che abita il luogo che seminano, che coltivano, prima di coltivare se stessi, di accedere alla cultura. Questo culto originario, legato al Sacro, Cicerone lo chiamava cultura animi, la cultura dell’anima, bella espressione che noi atrofizziamo con l’ abbreviazione di “cultura”».

Jean Clair cita poi Thomas Mann, affermando che «nel suo romanzo Doktor Faustus, fa dire a Mephisto che “da quando la cultura si è distaccata dal culto per diventare culto essa stessa, non è più che uno scarto, un rifiuto”. La cultura, nel senso che le attribuiamo oggi, non è altro che il culto che l’uomo dedica all’uomo, quando gli dei ormai si sono allontanati. È un’idolatria dell’uomo per se stesso, un’antropolatria. Il diavolo, nel racconto di Thomas Mann, ne trae le conseguenze con un sorriso ironico: la cultura di cui voi vi glorificate non è che uno scarto, ancor meno di un residuo; un’immondizia». Nel «nostro» inverno, la cultura non è più spazio di una religiosità laica, né strumento per «rendere il mondo abitabile». A prevalere è una logica mercantile. Dal culto degli dei siamo passati al culto della cultura.

Senza alcun risparmio di colpi è ancora la sua critica ai musei: «La cultura laica, con tutti i suoi prodotti, libri, opere d’arte, musica profana, tutta intenta a celebrare l’uomo, è finita nel deserto. Che senso può avere, oggi, un museo? Un patrimonio, una collezione di opere d’arte? O la creazione, tutto quell’autocelebrarsi, quell’interminabile e sempre più stancante “ego-trip”? Più ci rifletto, più avanzo in età, dopo quarant’anni al servizio dei musei, sarei tentato di dire: non ne hanno più alcuno».

Per Jean Clair esistono frontiere che non bisogna mai valicare tra la cultura alta – fatta di sculture e quadri – e la cultura pop, fatta di cartoon, graffiti, video. Viviamo oggi una vera discesa agli inferi: «Ci trovavamo in alto, non nella “cultura alta”, ma semplicemente in alto, a ricercare un dio, o almeno un suo sostituto trascendente, un senso, una salvezza forse, in ogni modo a credere in una qualche sopravvivenza. Liberata dalle sue origini religiose, liberata dall’imperativo di avere un senso da trasmettere, la cultura sembrava avere tutto il potere di fornire all’uomo un divertimento supremo. Ahimé! Siamo invece ripiombati sulla terra, dove abitiamo ancora un po’, cosí poco, tra le tirannie tecnologiche e le promesse di una vecchiaia interminabile, minacciata dal primo virus dell’influenza. Il movimento è arrivato al suo termine: il “culturale”. Siamo caduti al livello delle latrine, delle immondizie, dei “rifiuti” di Thomas Mann. Jeff Koons, Damien Hirst, Jan Fabre, Serrano e il suo Piss Christ, e con loro, quel compagno abituale degli escrementi, il suo doppio senza odore: il danaro, l’oro, la speculazione, le fiere dell’arte, le vendite al’asta, esorbitanti, scandalose, oscene…». Insomma, siamo piombati in una falsa religione della cultura, in una celebrazione del culto dell’uomo per l’uomo, attraverso un percorso dal “high” al “low”, dal culto alla cultura e infine al “culturale”, facendoci precipitare non nella gloria della creazione umana, bensì nell’immondo dei suoi rifiuti. In poche parole, l’opera è caduta nel mercantile, in un puro investimento finanziario.

Quali soluzioni? Occorre ritornare al culto? Per Jean Clair è fondamentale il recupero della sacralità dell’immagine, così come era concepita per gli antichi, soglia verso l’infinito, il trascendente: «L’arte non esiste. Esistono le immagini, solo che noi europei ne abbiamo completamente dimenticato il potere. Molte persone – ha concluso il critico – sono morte per il potere di un’immagine, basti pensare al divieto di culto imposto da determinate religioni in epoche in cui l’espressione religiosa era controllata. È stato molto commovente tornare a San Pietroburgo e vedere le icone sacre nelle chiese invece che nei musei in cui erano confinate nell’ex Unione sovietica. Ma questa differenza, purtroppo, in Occidente pochi riescono ad apprezzarla».

Il suo discorso appare pessimistico. Come superare questa impasse? È realmente possibile ritornare a un culto come in passato, mi chiedo, da moderatore dell’incontro, ricordando un’immagine di Basilio il Grande (nella foto), quando commenta il profeta Amos che dice di se stesso di essere un tagliatore di sicomori. Il frutto del sicomoro deve essere tagliato, altrimenti non è commestibile. Deve fuoriuscire il succo che gli impedisce di diventare buono. Non siamo forse noi oggi chiamati a fare questo, con la cultura del nostro tempo? Non si tratterebbe dunque tanto di condannare l’arte di oggi ma di inciderla, perché il «succo» che rende «cattivo» il suo frutto possa fuoriuscire. Per Basilio questa incisione era il Vangelo di Cristo che purifica, discerne il bene dal male, fa emergere la verità presente in ciascuna espressione culturale. In che modo può dunque oggi incidere le diverse culture? Forse papa Francesco ci stando alcune indicazioni su come fare questo discernimento? Di certo, i suoi interventi lasciano sperare in un rinnovamento che possa essere un vero e proprio «taglio» nei confronti di una cultura che necessita una nuova linfa vitale