La Biennale di fotografia

Torino

Ci risiamo, l’ha fatto di nuovo. Che poi una volta può pure andare, dici: la novità, ribaltiamo il sistema dell’arte, diamo la parola a chi non l’ha mai avuta, facciamo una cosa dal basso. Ma due no, ecco. Eppure è andata esattamente così: Vittorio Sgarbi ha lanciato la prima Biennale di fotografia in Italia (dal 21 aprile al 21 giugno 2014, a Torino, alle Officine grandi riparazioni) e il sistema di selezione per decidere quale artista avrà o meno l’onore di partecipare non esiste. Cioè partecipano tutti, anche tu. Chiariamo: L’iscrizione per accedere all’evento (che tra l’altro scade oggi) è aperta a chiunque, basta essere italiani o residenti in Italia, rispettare le modalità d’invio del materiale (un minimo di quattro foto, un massimo di sei) e versare 350 euro. Una giuria (composta dallo stesso Sgarbi, Giorgio Gregorio Grasso, Beppe Bolchi, da un rappresentante di Joy sas, quale organizzatore ed esperto in fotografia e Fine Art) analizza i lavori per scegliere due fotografie per ogni artista da esporre. Quindi è sufficiente pagare per esporre due fotografie nella prima Biennale dedicata alla fotografia?

Sì e no. O meglio, i soldi servono, è vero, ma solo a mantenere l’evento libero da critici. «Il contributo economico richiesto all’artista – è scritto nel sito della Biennale – permette a questo evento di rimanere autonomo evitando condizionamenti e garantendo la massima libertà d’espressione del singolo artista. Tale contributo permette infatti l’esclusivo pagamento delle spese vive e non servirà a mantenere altro che la valorizzazione e la diffusione delle opere d’arte degli artisti medesimi dando la possibilità ad una partecipazione senza filtri e senza scopo di lucro». Bene, la questione non è tanto i soldi (del resto non è la prima né sarai mai l’ultima manifestazione che li richiederà) quanto il fatto che questi soldi vengano utilizzati per tenere fuori una fetta di professionisti che rientra nella definizione stessa di Biennale. Scegliere nell’infinito magma dell’arte cosa rappresenta perfettamente il nostro periodo storico, la nostra sensibilità contemporanea, è forse uno dei compiti più difficili di un curatore in generale e di biennali in particolare. Saltare questo punto significa non prendersi responsabilità, non fare una scelta, non fare il proprio lavoro.

Direte: «Ma i curatori sono persone, fanno sbagli, hanno i loro gusti, portano i loro amici, sono la rovina dell’arte». Di norma il curatore è un personaggio formato, o quanto meno, ben inserito nel mondo creativo, abbastanza da poter esprimere un giudizio sensato (condivisibile o meno, certo, ma sensato, appunto). Portare un artista che ha come unica qualità il fatto di essere un amico del curatore rovina il nome di entrambi, quando è molto più probabile che un curatore abbia stretto amicizia con artisti che riteneva validi (e non il contrario).

La Biennale di fotografia, in ogni caso, ripropone lo stesso sistema di quella di Venezia curata da Sgarbi, ovvero nessun intervento critico. Una prima volta poteva funzionare ma la mossa ha incontrato i suoi limiti sulla distanza. Senza una selezione Sgarbi nel 2011 ha creato un buco: portando più di duecento artisti non ha dato valore a nessuno e nessun nome è spiccato fra i tanti dal suo padiglione. Insomma, una Biennale di fotografia così strutturata è più simile a un documento nel suo bloccare un’estetica generale del paese, estetica lontana però dall’essere definita arte per il semplice fatto che non tutti sono artisti. Nessuno ha niente da ridire in proposito, se solo però si evitasse di chiamarla con un nome che non è il suo. Poco conta che Sgarbi si sia in parte chiamato fuori da questa esperienza è l’idea di base ad essere sbagliata. Inutile, invece, commentare l’idea, espressa sempre sul sito della Biennale, che la fotografia ancora non è considerata come una forma d’arte.