Accanto al meno, un’ipotesi contemporanea

Questo volume nasce con una grande quantità di domande alle spalle. La validità o meno dell’idea di avanguardia, il concetto di affiliazione culturale, il senso di una ricerca che rifiuti il consenso e il contesto, suscitano anche nel nuovo secolo dibattiti e faziosità tali che il riprenderli sembra quanto meno rischioso. Eppure un senso l’investigazione su questi temi lo trova senz’altro, sia dal punto di vista del bilancio, che dalla prospettiva di generare una coscienza del nuovo, che non può evitare di partire da tutto ciò. Probabilmente il concetto di avanguardia è stato definitivamente superato. In ogni caso per l’Occidente moderno la qualità non è separabile dalla novità, anche per la necessità etica di non imitare, o non rifare soluzioni già conosciute, e ciò costituisce una contraddizione insanabile.

Questo volume nasce col tentativo di proporre una terza via per tutto ciò. Alcuni di questi artisti hanno la caratteristica di essere dei grandi isolati per carattere, così del tutto individualistica, magari recuperando frutti derivati dalla soggettività e dall’inconscio, è la loro ricerca. Altri invece hanno percorso con costanza e determinazione una ricerca di confine, con una singolare e non teorizzabile mistura delle arti o dei linguaggi. Per tutto ciò non hanno mai fatto gruppo. Unirli significa incidere sul metodo di studio, rinvenendo dei tratti unitari, sebbene in vero mal etichettabili come stile o comunione. Temi come l’umore, una certa dominante nel comportamento, una certa disposizione, diventano forse fatidici per organizzare un insieme, più che una certa soluzione tecnica, uno stile o la costanza di un segno.

A tutto ciò si deve aggiungere che molto spesso, nella storia dell’arte, i gruppi sono stati creati a partire da comportamenti tipici, in genere fortemente criticati. Nacquero così gli epiteti fauvée o cubista. Ancor oggi l’estetica farebbe fatica a trovare i tratti espressivi o i comportamenti da salvare in tanta avanguardia, ma almeno sappiamo che il ripugnante, il volgare, il non-estetico oggi suscitano consensi pari, se non maggiori, rispetto alle arti cosiddette belle. Molta arte è stata prodotta partendo solo da una pars destruens dalla quale, da un tempo estremamente lungo, è sospesa la questione relativa alla produzione di bellezza (e di tanto altro) che dovrebbe essere il principale appannaggio delle arti. Unità si è trovata dunque anche nel ripugnante.

In tutto ciò vorrei trovare dei caratteri tipici della cultura italiana. Tutti i nostri artisti hanno lasciato tracce del loro lavoro teorico, ma nessuno avrebbe mai approvato una discriminazione strettissima, come quella applicata dalle avanguardie, per stabilire chi potrebbe far parte o meno di un gruppo. Tra l’altro sono state facilmente indicabili le basi da cui sono nati i vari movimenti artistici (l’inconscio per il surrealismo, la casualità per il dada, l’ésprit de géometrie per il cubismo, eccetera). Tutto ciò risulta sorprendentemente impossibile per l’arte italiana, che mira sempre e principlamente a un’idea di humanitas che fa pendant con la larghezza di vedute estetiche.

Scorrendo la storia dell’arte del Novecento, per esempio, la pura proiezione verso il progresso e il futuro, da cui il termine futurismo, genererebbe caratteristiche formali talmente vaghe e indistinte che risulterebbe impossibile argomentare da ciò uno stile. Per questo motivo è stato affermato che il futurismo intendeva rivoluzionare l’intera vita, non solo l’arte. Del tutto estranea alla mentalità italiana risulta dunque una visione censoria e definitoria nei confronti dell’arte: stabiliti dei criteri, gli artisti italiani farebbero a gara nel trarsene fuori. Da ciò la loro debolezza e l’impossibilità di definizione che, a partire dalle avanguardie, è un difetto. Ciascuno di loro non amerebbe stare in un libro con altri, pur apprezzandoli sinceramente nell’intimo.

Diciamo allora che questo testo vorrebbe essere anche una (spero amabile) forzatura, onde scardinare l’individualismo tipico di tanti loro. Se un tratto comune in fondo si può rinvenire, è solo il peso della considerazione e della responsabilità nei confronti della storia, le cui esigenze gridano in modo particolarmente forte le loro ragioni nelle nostre latitudini. Infatti non è questione di mancanza di coraggio, si cerca invece un modo di ricerca estetica così ampio e comprensivo che, paradossalmente, qualsiasi arbitrio perpetrato in nome della novità, risulti plausibile e gradito anche al passato. L’impossibilità di assolvere a questa esigenza contraddittoria determina la fragilità interiore e intrinseca di tutta l’avanguardia italiana. Spero che questo volume contribuisca a far luce su qualche questione che attanaglia tante sfere del nostro agire, non solo dell’arte.

Paolo Aita, Accanto al meno, un’ipotesi nell’arte contemporanea, Rubbettino, 142 pagine, 15 euro, estratto dalla prefazione, cortesia dell’autore. Il libro viene presentato a Roma il 22 gennaio, h. 17.30, nella sala della crociera della biblioteca di archeologia e storia dell’arte, via del Collegio romano 27. Con l’autore, sono presenti Paolo Balmas, Guglielmo Gigliotti e Adriana Polveroni.

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