Sbarrare non è cancellare

Prendete uno street artist, toglietegli la notte, i cancelli da scavalcare, il cappuccio, le bombolette, levategli insomma la ribellione e la sfida alle regole. Bene. Aggiungete la consapevolezza totale delle proprie azioni, di quello che lasciano per prendere qualcosa di più che un scalcinato muro; la certezza del proprio posto nel mondo. Se volete, questa volta potete, togliete street e lasciate artist e salta fuori Rero. Stile e relativa poetica chiara, cristallina come le sue parole cancellate da una linea che voleva sottolinearle. Un artista di strada vecchia scuola, di quelli senza accademie sul groppone, quelli che lasciano tracce per il mondo nella speranza di non essere cancellati dal tempo. Alto e brizzolato siede su una poltrona di pelle dove l’abbiamo intervistato per la sua mostra nella galleria romana Wunderkammern.

Hai cominciato con il wild style di New York, ora fai tutt’altro.

«Sì è stata una rottura. Ho cominciato a fare graffiti perché l’arte era troppo elitaria, l’arte classica è complicata. C’è un’enorme quantità di libri che dovrebbero essere studiati prima di cominciare a produrre qualcosa. I graffiti permettono invece di avere un accesso più diretto, sono più immediati. Così ho cominciato copiando le prove di chi ha inventato questo tipo di espressione, poi mi sono detto: un attimo, tu non hai mai vissuto nel Bronx. È lì che si è consumato lo stacco ed è partita la ricerca verso una tecnica più personale, nella quale mi sentissi più a mio agio. Continuare a ripetere l’impronta statunitense in Francia o a Roma per me non ha senso».

Allora qual è il senso dei graffiti oggi?

«L’unica ragione di questa espressione è cambiare la funzione del luogo dove si intende agire, luogo che non deve essere nato per ospitare graffiti. I treni delle metropolitana per esempio sono perfetti per questa tecnica. Scopo della street art è riappropriarsi di un ambiente, per me il problema della legalità o meno non ha nessuna importanza, i graffiti come la land art sono una forma di interazione che modifica un contesto, non è disegnare su un foglio bianco, penso agli sketch book che sono quanto di più distante dalla mia idea di graffiti».

Come si collocano i tuoi interventi in questo contesto?

«Con il Verdana sbarrato non ho inventato niente, ho solo ripreso una maniera tipografica molto presente soprattutto sul web. Invece di lavorare sullo stile preferisco prendere qualcosa che è molto comune e intervenire su dei luoghi che non sono stati fatti per ricevere un’opera. Ho cominciato a attaccando manifesti per strada e la mia linea, inizialmente molto fine, è diventata sempre più spessa caratterizzando il mio messaggio, oramai è parte integrante delle parole. Dalla strada sono passato poi ai luoghi abbandonati dove il mio intervento si legava di più con il contesto, dialogava con l’architettura. Ultimamente intervengo sempre all’esterno ma nella natura uscendo dal cliché dei graffiti negli spazi urbani o abbandonati anche solo per far vedere che si può interagire con degli luoghi più belli».

Non c’è il rischio di cadere nel decorativo?

«Sì, il rischio c’è, è un problema che sto affrontando con i miei ultimi lavori; nonostante le mie opere recenti siano interventi nella natura, cerco sempre di evitare l’effetto cartolina, di non cadere nella sola estetica, di mantenere il senso originale delle mie creazioni».

Quando hai cominciato a scrivere per strada?

«A sedici anni, come un po’ tutti, nell’adolescenza. È una cosa che cominci a fare sul tuo quaderno, poi quando sono arrivato a Parigi dalla Provenza ho viso persone scrivere sui vetri. Mi sembrava una cosa bellissima, sembrava un codice incomprensibile, quasi un dialetto che non riuscivo a capire ma che a loro risultava chiaro, come se fossero delle tribù che comunicavano con idiomi sconosciuti. Poi quando ho capito che in realtà scrivevano semplicemente il loro nome sono rimasto deluso. Del resto è un atteggiamento classico dell’adolescenza quello di sottolineare la propria identità rispetto a quella di tuo padre o dei tuoi amici, è un qualcosa che costituisce la tua personalità. Ho fatto graffiti in senso classico più o meno dai sedici ai venticinque anni».

Un po’ come la musica.

«Sì, effettivamente è come la musica. Trovi il tuo linguaggio».

Che rapporto c’è fra uno street artist e un artista di formazione più accademica?

«Credo che la differenza stia nel rapporto con il pubblico, nel mostrare il proprio lavoro: lo street artist scende per strada, dimostra cosa è in grado di fare davanti a tutti, è un atto sociale prima che artistico, contrariamente a chi ha una formazione classica dove primaria è invece la ricerca artistica».

Dici del tuo lavoro che è un’immagine formata da un testo, dov’è l’immagine e dove il testo?

«Nei miei lavori cerco di riferirmi non a un’immagine figurativa ma un’immagine pensata, è un concetto, spesso è una sensazione, qualcosa che è difficile rappresentare. Cerco di materializzarla, di darle una forma reale e il fatto di inserirla in un ambiente ne fa un’immagine dove chiunque ne trae un’esperienza diversa che non sarà mai la stessa per nessuno. Quando leggi una mia frase immediatamente si forma un’immagine che però in realtà non è rappresentata da nessuna parte. Mi sono occupato per un anno di grafica quando ero costretto ad affiancare un testo a una figura creando immagini molto simili a quelle di Miss Tic. Banksy anche utilizza spesso l’affiancamento di parole con figure, loro non hanno bisogno di un contesto, sono lavori completi in se stessi, ciò che invece interessa a me è proprio il contesto, il non poterne fare a meno, creare una figura, una sensazione di figura, quando in realtà non c’è».

È una pratica astratta la tua.

«Sì, astratta. Per me è anche una maniera di vedere il mondo, di visitare, di interagire con la realtà».

Le linee che fai sono più una cancellazione o come Christo copri per scoprire?

«Entrambi e di più. Non c’è mai un solo senso. Inizialmente è nata come una pratica per attirare l’attenzione perché mi si leggesse, poi è diventato un richiamo al graffitismo. È un uso comune della street art cancellare con un linea il lavoro di un tuo rivale, la mia è anche un’autocensura. La linea è anche un modo di sottolineare le parole, di tenere insieme le lettere. Come diceva Basquiat, cancello per mettere in evidenza. La linea per me è un interrogativo, una domanda aperta».

Sono per questo i tre puntini finali?

«Sono per aprire, così si può tornare su ciò che si è scritto, niente è detto in maniera definitiva, non è un punto finale: è solo una frase, non è la verità».

Qual è il tuo rapporto con la fotografia? È attraverso questa che raggiungi il più largo pubblico.

«È un lavoro d’archivio. Il problema della fotografia è che obbliga un punto di vista che è il mo punto di vista, mentre per i miei lavori all’esterno sarebbe meglio coprire più punti di vista possibili, per questo utilizzo sempre più spesso i video per documentare i miei interventi. Così si capisce meglio l’azione e l’evoluzione del lavoro quando invece la fotografia fissa l’azione. Per me l’atto è più importante del risultato».

Quindi fra il video e la fotografia preferisci la prima?

«Sono entrambi dei medium molto forti e validi ma nessuno dei due può sostituire l’opera, una fotografia o un video non sono il mio lavoro. È un modo per entrare nei miei interventi ma l’opera è nell’azione che è stata fatta».

È stato difficile adattare il tuo stile dall’esterno all’interno di una galleria?

«All’inizio ho pensato non fosse possibile, che non era la mia energia quella di lavorare all’interno. Poi mi sono detto qual è lo scopo del mio lavoro? È modificare il supporto sul quale agisco, modificare la funzione primaria di qualcosa, parliamo di un muro, di un treno, di una cassetta delle lettere, per me all’interno è stata la stessa cosa. Ho avuto dei problemi in principio a lavorare su una tela perché sacralizzata dall’arte. Nel momento in cui si fanno dei disegni su un bel foglio bianco fra di me dico è arte, dopo Duchamp alla fine tutto è arte, decontestualizzare un supporto sacro, creato per ricevere un’opera è ancora di più un lavoro artistico ed è per questo che ho avuto grandi difficoltà. Così ho lavorato in senso inverso, ho trasformato la tela in una texture di un muro, la dimensione che trovo più congeniale, ho trattato il quadro come un oggetto non fabbricato per ospitare un lavoro artistico. A questo ho aggiunto in mostra dei lavori fatti su supporti diversi da quelli classici: un buono d’ordine del tesoro italiano, le sciarpe di una squadra di calcio, i piatti con le stampe di papa Francesco, la pasta, i panni stesi e i libri. Sono questi i supporti che trovo perfetti per il mio lavoro perché non creati per ricevere delle opere d’arte».

Sui muri della galleria hai scritto Damnatio memoriae con il neon.

«Sì, quello che mi ha ispirato è la storia di Caracalla che ha saputo eliminare tutte le tracce della memoria del fratello arrivando fino a rifondere le monete che portavano la sua effige. La luce del neon abbaglia come a cancellare chi entra in quell’ambiente scuro. Credo che sia un tema molto forte la necessità di lasciare una traccia nel mondo per evitare di essere dimenticati».

Fino la 25 gennaio; Wunderkammern, via Gabrio Serbelloni 124, Roma; info: www.wunderkammern.net