Fuori dal crepuscolo fra storia e memoria

“Per noi tutti esiste una zona crepuscolare fra storia e memoria; fra il passato come archivio generale aperto a un’indagine relativamente spassionata, e il passato come parte o sfondo dei propri ricordi personali. Per i singoli individui questa zona si stende dal punto d’inizio delle tradizioni o memorie familiari ancora vive (diciamo dalla più antica fotografia di famiglia che il familiare più anziano è in grado di identificare o spiegare) fino al termine dell’infanzia, quando le vicende pubbliche e quelle private sono avvertite come inseparabili, e si definiscono reciprocamente. (Infatti diciamo: «L’ho conosciuto poco prima della guerra…»)”. Così scriveva, quasi una trentina di anni fa, Eric Hobsbawn nell’ouverture di L’età degli imperi 1875-1914. Se allora era puntata sul 1914 quella linea che demarca la “terra di nessuno temporale”, trent’anni dopo va calcolata nel 1944 e dintorni. Che è proprio lo spazio temporale considerato da questo libro di Claudio Fracassi, La battaglia di Roma 1943. I giorni della passione sotto l’occupazione nazista (Mursia, 531 pagine, 18 euro).

Spiega ancora il prestigioso storico britannico, scomparso di recente, che l’estensione di questa zona può variare, come può variare il grado di oscurità e confusione, ma c’è sempre, “ed è la parte di storia di gran lunga più difficile da afferrare”, e non soltanto per gli storici. Se Hobsbawn era nato in piena Prima guerra mondiale, Fracassi, giornalista di lungo corso, direttore di Paese Sera, prima, e fondatore di Avvenimenti poi, è nato proprio a ridosso dei fatti che ricostruisce nel volume. C’è un altra coincidenza, di natura del tutto privata, che chi vi parla ha conosciuto queste pagine di Hobsbawn proprio nel periodo in cui, sotto la guida di Fracassi, apprendeva il mestiere di giornalista. Ci sono diversi motivi di emozione in questa presentazione: ad esempio il fatto di trovarsi dentro il luogo dei fatti. Il Grand Hotel, qui di fronte, fu il luogo dove vennero cucinati i pasti di Badoglio la sera cruciale tra il 7 e l’8 settembre. L’armistizio e i fatti che seguirono non furono lineari affatto, come scoprirete leggendo il libro. Ma, più in generale, ogni strada qui intorno parla ancora di quei giorni. Basta saperlo leggere.

Tutto questo per dire che la nozione di zona crepuscolare che tanto mi colpì all’università, è utilissima a comprendere di che materia sia fatta la mole di materiale che Fracassi ha maneggiato nella costruzione del libro pescando negli archivi, dalle fonti propriamente intese, e nella propria biografia, in un’educazione sentimentale alla politica costruita dalle generazioni che attraversarono quella guerra e i giorni dell’occupazione nazista della capitale, la finzione della città aperta, come si spiega bene nel libro. Anche chi ha la mia età è cresciuto ascoltando la rielaborazione dei ricordi della guerra composta coralmente da tutti i membri della mia famiglia, che abbiano combattuto o che siano stati travolti dagli eventi senza una divisa addosso. Fracassi, come anche molti di noi, ha anche conosciuto personalmente le persone citate nel volume, i protagonisti parlano spesso in prima persona nelle pagine della battaglia di Roma. È dunque un libro rischioso perché interviene sulla carne viva dei testimoni e sui nodi non solo storiografici ancora aperti. Ben venga dunque un’altra storia di quei giorni scritta con la fluidità di un reportage dalla città occupata ma con un apparato di note che “occupa” un settimo del volume e consente perciò più livelli di approfondimento di una materia che ci riguarda ancora.

Ma la zona crepuscolare vale sia per gli individui che per la società. Teniamo presente, ancora una volta, la suggestione di Hobsbawn: “Il mondo in cui viviamo è fatto è ancora per grandissima parte un mondo fatto di uomini e donne cresciuti nel periodo, o a ridosso del periodo di cui tratta questo libro”. La Seconda guerra mondiale, la lotta di liberazione, l’immediato dopoguerra, hanno a che vedere con l’esperienza concreta – sebbene in modo più impersonale rispetto ai superstiti del tempo – di chiunque vive nei primi decenni del ventunesimo secolo. È di poche settimane fa la nota inquietante di Jp Morgan, la seconda più grande banca d’affari del pianeta (la prima è Goldman Sachs dove lavorava Monti) che indicava come un freno allo sviluppo economico proprio le costituzioni dei paesi dell’Europa meridionale, ossia quelle nate da una lotta di liberazione dal fascismo. Ecco dunque un’altra ragione per leggere libri come questo e tenere viva la memoria di quella stagione per evitare che venga deformata nell’eterno presente con cui i media elettronici, la televisione prima di tutti, aprono lo spazio del revisionismo, del rimodellamento del nostro passato in funzione della legittimazione di nuovi e vecchi poteri che vogliono sembrare nuovi per non farsi riconoscere.

È dentro questo spazio che Berlusconi – non a caso il padrone di tutte le tv – abbia potuto dire che Mussolini, in fondo, mandava in vacanza gli oppositori. Tanto per citare c’è l’ultimo clamoroso sfondone revisionista e in malafede di Pippo Baudo. È successo l’8 luglio durante un programma intitolato Il viaggio che il più longevo presentatore nostrano abbia definito un’“azione terroristica partigiana” l’impresa gappista di via Rasella, a cui i tedeschi hanno risposto con la strage delle Fosse Ardeatine, riproponendo un cliché alimentato già all’indomani della strage da un pezzo della Democrazia cristiana e dall’entourage del papa di allora, Pio XII. Il libro restituisce la dignità alla vicenda gappista e dà conto della mostruosità del comportamento nazista in una cornice di brutalità violentissima iniziata già alla notizia della firma dell’armistizio da parte italiana. La natura reale del potere fascista, “la torbida vicenda criminale”, la chiama Fracassi, e dell’occupazione nazista della capitale escono nettamente dalla battaglia di Roma e solo un lavorìo di deculturazione incessante, di destrutturazione della memoria, ha permesso che i protagonisti di quel bagno di sangue siano riaffiorati nell’immaginario collettivo costruito sull’ignoranza.

Se un esempio può dare ragione del mio pensare contorto di stasera basti quel mausoleo a Graziani spuntato con dispendio di fondi pubblici in un paese non lontano da qui, ad Affile. Il catalogo di bestialità simili per questo o quel gerarca, per questo o quello scienziato promotore del Manifesto della razza, di busti di Mussolini che fanno bella mostra di sé in uffici di sindaci, parlamentari, questori e alti papaveri militari potrebbe continuare per ore, ma è più importante dire che la conseguenza di quella rottamazione della storia recente abbia portato nell’area di governo – caso unico in Europa – una coalizione tra destra “normale” (ammesso che sia lecito definirla così) e destra estrema. No, questo Battaglia di Roma non va archiviato come un semplice libro di storia. La memoria è un ingranaggio collettivo e ha bisogno di una storia che solo apparentemente è risaputa. Leggete, ad esempio, le pagine sulla banda Koch e sulle torture alla Pensione Jaccarino e poi dite se non avete pensato alla Diaz e Bolzaneto. Le suonerie dei cellulari degli agenti di quel luglio squillavano sulle note di Giovinezza e Faccetta nera. A maneggiare la “zona crepuscolare” c’è sempre un rischio.

E qui non posso fare a meno di tornare a Hobsbawn. Ciascuno è storico del proprio vissuto “nella misura in cui cerca di venirne intellettualmente a capo”, dice la mia guida di stasera. Ma è uno storico poco attendibile poiché la zona crepuscolare ha contorni vaghi, a volte confusi, “sempre trasmessa – dice ancora Hobsbawn – grazie a un misto di cose apprese sui libri e di memoria di seconda mano modellata dalla tradizione pubblica e privata. Perché è ancora parte di noi ma non interamente alla nostra portata”. Come le mappe medievali, anche la zona crepuscolare ha simboli e mostri fuori scala, ingigantiti. La fabbrica dell’immaginario lavora anch’essa a modificare la memoria collettiva con meccanismi quasi mai ingenui o neutrali. Pensate all’utilizzo decontestualizzato delle fotografie o di alcuni testi (mi viene in mente la banalizzazione di Pasolini a proposito del suo scritto sui poliziotti figli del popolo, perché viene usata per intossicare la comprensione del conflitto sociale), oppure – per venire ai 270 giorni di occupazione nazista – il fermo immagine di  a San Lorenzo dopo i bombardamenti usato per glissare il contegno ambiguo del Vaticano rispetto al nazismo.

Tutto ciò avviene perché quel passato è ancora dentro di noi ma non sappiamo più quanto sia ancora dentro di noi. Finché non arrivano libri come questo, capaci di offrire più di una pista da seguire, intrecciando fonti ufficiali e fonti orali e diaristiche, di leggere la storia senza crederla successione di eventi che non sarebbero potuti accadere che in quel modo. Fra le trovate della scrittura di Fracassi c’è quella dell’intreccio di questi punti di vista tale da rendere la lettura incalzante come quella di un buon romanzo. Apparentemente c’è molto buon senso nel dire che la storia non si fa con i se ma così le forze soggettive sono ridotte a strumenti inconsapevoli del destino. Questa storia va continuamente interrogata a partire dalla mancata difesa di Roma nelle ore successive all’armistizio. I tedeschi potevano essere respinti ma il re e i vertici politici e militari preferirono fuggire. Oppure: come sarebbe stato diverso se i cittadini non si fossero ribellati, più o meno apertamente, alla mistificazione della Città aperta e alla guerra in generale? E se gli Alleati non avessero esitato così tanto a dirigersi verso Roma? E davvero non era possibile un’insurrezione popolare come quella che caratterizzò la liberazione di altre città? Sono domande utili anche a comprendere il nostro presente.

Come è utile tenere a mente la tesi di fondo di questo libro, che la città cambiò il suo carattere nei 270 giorni fino a sconvolgere e terrorizzare gli occupanti che ne osservavano da alcuni anni la tendenza a lasciarsi passare sopra qualsiasi evento senza ribellarsi mai. Roma non si normalizzò, non restò mai muta e fece ingoiare ai nuovi padroni i giudizi sprezzanti che avevano pronunciato sulla città. Roma è stata una città ribelle e mai domata, come recita una famosa canzone popolare. Perché mai, allora, nelle periferie in cui i nazi non osavano mettere piede – Pietralata, il Quadraro, Centocelle – oggi si aprono sedi e palestre di Casapound e Forza nuova? Oppure, domanda più scomoda ancora: perché mai l’Anpi ha deciso di non aderire alla manifestazione nazionale in difesa della Costituzione? C’entra nulla con quel revisionismo “mainstream” di cui si parlava prima? Questo libro serve a capire anche questo. Grazie direttore.

intervento tenuto in occasione della presentazione del libro a Roma