Sculture d’ombra e polvere

Polvere che scendeva. Poi stop. Dopo qualche minuto, un’altra pioggerellina di polvere. Altro stop. «E questo?», chiesi. Dissero che si trattava del lavoro di un artista in mostra: Diego Mirabella. Un ricordo era stato inevitabilmente lasciato. Io, tu, altri “lui/lei”: spettatori e insieme coautori di un’opera, diveniamo impronta di un passaggio. Entrano così le opere di Mirabella, in medias res: come dei personaggi in scena, irrompono in un gioco di parti. Colpiscono il sistema nervoso, qui è “l’occhio che tocca” nel momento in cui guarda – di deleuziana memoria – e coglie in un balzo una trama di sensazioni ed elementi: quelle che rimarranno all’uscita di scena. L’occhio tattile si avvicina tanto da cancellare i confini spaziali, perché sperimenta la totalità, vede attraverso l’immagine la forma. Coglie le parti l’una nell’altra, laddove la vista coglie le parti fuori di sé, l’una dopo l’altra. L’arte di Diego colpisce subito per questa peculiarità aptica dello statuto sensibile del vedere, che fa dell’estetica una vera e propria “logica della sensazione”, quella che può essere affermata dai sensi, attraverso la percezione, riappropriandoci della vera etimologia del termine estetica (dal greco aesthetikòs: sensibile, relativo alla sensazione o percezione). Nel suo racconto per immagini, Diego infatti narra le parti come elementi di un tutto, a cui nulla si sottrae. Tutto compartecipa alla completezza dell’essere: piedistalli e lavori in lattice, fiori e installazioni dall’impianto architettonico, colore e polvere disegnano nel tempo un essere, entrano e fuggono, poi ritornano. A ogni “attore” è affidata la propria parte, un proprio tempo e spazio in scena.

Da un punto di vista concettuale, l’arte di Mirabella è sensibile al sistema heideggeriano di Essere e tempo: i suoi lavori paiono attraversati dal tempo e abitare uno spazio, e quindi comprovare un essere, o meglio un esserci. Potremmo identificare la temporalità come il senso dell’essere dell’ente (l’opera in questo caso) che chiamiamo esserci, che tale si manifesta nel presente, in ragione di una dimensione passata e di una futura, e non può sussistere senza uno spazio, tanto che i maggiori interpreti di Heidegger hanno capito che dietro il titolo di Essere e tempo si nascondeva una potenzialmente rivoluzionaria trattazione di essere e spazio. L’ente infatti si attua lungo una linea temporale che attraversa il presente, a partire da un passato e continuando nel futuro e, se l’essenza dell’opera è lo stare nella natura del suo essere, per esserci ha bisogno di un posto nel mondo e questo posto lo stabilisce “avendo una porzione di esso”, cioè abitando un luogo. Essere e avere si sintetizzano perciò nell’abitare (abitare contiene in sé il verbo latino habeo, avere appunto). La natura della polvere contiene in sé il divenire dell’essere: essa è una delle iscrizioni del tempo e la metafora della stessa dissoluzione del nostro essere, o piuttosto di quello della nostra società contemporanea, tanto che l’arte contemporanea sembra attratta in modo decisivo dal tema della polverizzazione delle cose e del mondo, nella virtualità di un mondo a misura di pixel, dove tutto è quasi più etereo dell’immaterialità. La fotografia che Man Ray fa nel 1920 al Grande vetro di Marcel Duchamp coperto dalla polvere apre la strada a una poetica che richiede allo spettatore una partecipazione, uno sforzo mentale, un avvicinamento fra l’arte e la realtà vissuta: le condizioni per arrivare all’opera d’arte totale, ossia l’opera senza limiti tra la vita e l’arte.

È da un secolo che l’arte tenta di acchiappare l’invisibile (più o meno dall’Air de Paris di Duchamp del 1919, arrivando fino alle espressioni delle nuove tecnologie applicate all’arte nel loro tentativo di monitorare un qualcosa che vive solo virtualmente) e nell’arte di Mirabella il ruolo è affidato alla polvere: l’elemento dell’informe, traccia di una presenza, quasi traccia di una volontà di confine, di una necessità di delimitare e abitare gli spazi, polvere come l’effimero della vita, forse anche polvere come polverizzazione dei valori. Sculture d’ombra. La riflessione percepibile nelle sue opere con la polvere e nei suoi disegni e installazioni architettoniche sono smorzati dai lavori in lattice, lunghi panni multicolore lavorati dall’artista, dove l’energia informe rilasciata sul telo e sprigionata dalla forza del colore fa emergere la forma sottraendo il controllo sulla materia. In questo senso la ricerca artistica di Mirabella è anche un tentativo di ridare un senso al concettualizzare in grande stile fine a se stesso, verso un recupero del piano materico. Dal punto di vista formale, così i lavori di Diego si muovono fra il rigore del costruttivismo e la libertà dell’informale gestuale. Diego procede per opposti: tempo e istante, progettazione e libera espressione, informe e correzione di una natura indefinita. E poi c’è un altro aspetto che attraversa ogni suo lavoro, facendocelo toccare, ma non afferrare: è il mistero, lì dove il viaggio si fa molto rischioso, ma anche più interessante. Così come la luce non potrebbe essere appresa senza l’oscurità, anche la verità, perché si disveli, implica un suo nascondimento. L’arte ha il compito di operare delle aperture di senso, cercare risorse simboliche nuove anche a costo di infrangere le regole del nostro linguaggio, anche a costo di commettere degli errori: l’arte, come la filosofia, ha il compito di aprire nuovi orizzonti di senso. E noi, qui, siamo pronti a provare, a sbagliare, a ritentare, a fare meglio e a cogliere orizzonti non ancora esplorati. Beckett, pure, ne sarebbe fiero.

Entrano fuggendo, Operativa arte contemporanea, via del Consolato 10, Roma, fino al 10 novembre. Info: www.operativa-arte.com