Postclassici nel solleone

Nella società dell’immagine, di cui non s’intravede la fine nonostante la crisi, questa assume una verità dai contorni più netti del reale, una valenza di gran lunga maggiore della realtà. È il cosiddetto paradosso della surrealtà, dove l’unica forma di realtà è data da una percezione immaginifica, del tutto falsata rispetto al quotidiano vissuto di ognuno, ma non meno reale. Surreale, appunto. Ma è un paradosso che funziona anche al contrario. Là dove l’immagine si sostituisce alla realtà, la realtà supera l’immaginazione, l’immagine può aessere incapace di narrarla. Ci sono cose che nessuna immagine può rendere, una bellezza che nessun artificio può arricchire. È questo il caso di Post classici, la ripresa dell’antico nell’arte contemporanea, in mostra ai Fori capitolini fino al 29 settembre, a cura di Vincenzo Trione (catalogo Electa). Nessuna immagine potrà rendere giustizia a Roma, alla sua struggente bellezza. Neanche quelle della nostra Manuela Giusto ché, pure, è di manica larga nel concedere grazia attraverso i suoi scatti. Per questo, a fronte di questa carrellata di foto, il consiglio è uno solo: andate a vedere di persona, toccate con mano e piedi cosa significa poter passeggiare ai Fori, tra i luoghi più fascinosi del mondo, il cuore di ciò che un tempo era considerato caput mundi, beandosi delle gioie del contemporaneo frammiste a quelle dell’antichità.

Passeggiare tra i gessi delle capoccette – copia di quelle in pietra che in un’altra era glaciale i compagnucci dell’Autonomia andavano a smerciare dagli antiquari di Milano – di Parmiggiani, i busti della Beecroft o le combattenti di Albanese allo stadio di Domiziano, la mega Venere degli Stracci di Pistoletto riallocata nella cella tronca del tempio di Venere e Roma, gli scudi sabellici in terracotta e orpelli in ferro e altro di Paladino a guardia del Colosseo eretto dal sabinizzato Flavio Vespasiano, per dirne cinque su diciassette, valgono il prezzo del biglietto. Pari alla visione di un film d’infimo ordine. Ma tanta bellezza non può restare orfana d’ignavia, d’italica stupidità. Che i custodi comincino ad abbajare per l’uscita del pubblico alle sette meno un quarto, dopo aver costretto torme di poveriscristi in pena a vagare nel solleone, è delitto gridato in faccia al buonsenso, un crimine contro l’umanità degno d’essere denunciato al tribunale internazionale dell’Aja. Non che si getti la croce sui medesimi, sia chiaro. Fanno il loro lavoro, con disponibilità e spesso serietà. Ma che senso ha allestire qualcosa di simile, di unico al mondo, se non si mette la gente – i romani, i turisti – in grado di fruirlo davvero?

Nel lagnalagna e nello scaricabarile generale, tra esigenze di mettere in sicurezza i visitatori, tagli di fondi e ai diritti – taluni legittimi, altri meno – del personale, il risultato è sotto agli occhi, ed è sconfortante. Quale altro paese al mondo può permettersi il lusso di lasciare per ore colonne di turisti sotto al sole, davanti al Colosseo chiuso per assemblea sindacale come ieri? Quale altro paese è tanto paralizzato dalla mancanza di fantasia e coraggio, prima ancora che di denari, sconsolatamente autolesionista? È una domanda che rinviamo alla soprintendenza per i Beni archeologici, promotrice dell’evento, e a chi per essa nel rimpallo delle competenze. Quanto all’esposizione, non mancatela, anche a rischio del coccolone. Magari approfittando di una delle letture curate da Doppiozero, nello stadio di Domiziano, nelle serate del 2, 3, 4, 9, 10 e 11 luglio.

leggi l’articolo di Maurizio Zuccari

foto di Manuela Giusto