Salviamo l’arte europea a Calcutta

Quando vediamo i gruppi organizzati di turisti, di solito giapponesi o anziani tedeschi, che girano per le nostre città italiane come brigate di un esercito che avanza non possiamo non meravigliarci. È difficile osservare e capire la bellezza dell’arte e della storia viaggiando in quel modo. Se poi pensiamo che i tour in Italia vengono venduti all’estero con pacchetti di nove giorni, di cui tre a Roma, due a Firenze, due a Venezia e due a Milano o Napoli, capiamo come il global tour del turismo di massa non abbia molto a che vedere con il viaggio e con la conoscenza. Poi però, di solito, quando gli italiani vanno all’estero fanno esattamente la stessa cosa: la dimensione consueta del viaggio è quella del gruppo organizzato. Questo vale anche per luoghi, come quelli asiatici, che hanno caratteristiche simili ai nostri, per la bellezza della storia e dei capolavori artistici. L’antropologia italiana, a differenza per esempio di quella francese, è quella del turista più che del viaggiatore. Sarà che costa meno, sarà che si sente più sicuri, sarà che si delegano molte cose, sarà che non parliamo inglese fluente, sarà che siamo pigri, ma questo è il modo con cui andiamo all’estero. Questo modo di viaggiare riguarda per esempio una grande nazione come l’India, oggetto in questi mesi di incomprensioni per via della imbarazzante vicenda dei marò. Eppure basterebbe un viaggio meno organizzato e un po’ più individuale per cogliere molti dei legami tra la nostra cultura e quella indiana, legami che riguardano anche l’arte. In questi giorni a Roma si tiene una mostra che documenta una delle maggiori realizzazioni del restauro italiano: il ciclo di dipinti di Ajanta.

Scoperte per caso da un gruppo di inglesi che inseguivano una tigre, le rovine di Ajanta, luogo poco visitato dagli occidentali ma molto amato dagli indiani, rappresentano un sito dal valore inestimabile. Si tratta di un insieme di templi e monasteri scavati nella roccia che mostrano un livello eccezionale sia nella scultura che nei dipinti. Particolari condizioni atmosferiche hanno permesso a questi dipinti di conservarsi nei secoli e di mostrarci con grande forza il livello raggiunto dalla cultura nel periodo dell’Impero dei Gupta, che prende in mano intorno al quinto secolo dopo Cristo il lascito della civiltà romana, per livello tecnico ed artistico. I restauri affidati ai nostri studiosi sono un vero regalo per l’ umanità.

Più a Nord, invece, nella megalopoli di Calcutta, possiamo imbatterci in un luogo davvero singolare. Una villa in stile europeo, che cade a pezzi, piena di opere d’arte e ancora abitata dai discendenti dalla famiglia di ricchi mercanti indiani che nell’ottocento, per imitazione del gusto inglese, l’aveva riempita di capolavori. Queste opere sono ancora lì, per i pochi visitatori che passano. Troviamo per esempio dei Guercino, dei Poussin, un Tiziano, un Van Dick e due opere molto significative di Murillo e di Roubens. Le opere di scuola italiana prevalgono, come era tipico del gusto dei collezionisti inglesi. Queste opere sono lasciate all’umidità e all’incuria, e si stanno lentamente rovinando. Basterebbe darne in prestito alcune, per metterle al sicuro e finanziare i restauri del palazzo, ma sembra che i proprietari non si facciano questi problemi. Forse l’India non ha leggi che tutelino i capolavori dall’incuria dei proprietari? Si tratta di una serie di capolavori dell’arte europea che stanno rischiando di morire. Lanciamo un appello all’ambasciatore dell’India in Italia e al console italiano a Calcutta: salviamo i capolavori del Marble Palace dal degrado.