C’è sempre qualcosa di troppo o di troppo poco. Non tornano i conti davanti a una fotografia di Mario Giacomelli, il nero cancella tutto e il bianco devasta ogni forma, i i corpi non hanno la loro ombra, i piedi non poggiano e i grigi non esistono e se esistono confondono. Giacomelli non si è mai definito un fotografo, perché fotografo non è mai stato. Su questo non esistono dubbi. Giacomelli era altro e non era neanche un artista, era un primitivo, un selvaggio, un tipo violento contro il tempo e contro le forme. Solitario e ignorante fotografava solo la domenica, gli altri giorni lavorava, le altre notti stampava. Entrava nel buio della camera oscura e usciva alla luce con brandelli di realtà confusi fra i suoi pensieri. Il reale per Giacomelli è un punto di partenza, niente di più. Il primitivo sbatte davanti agli occhi dello spettatore una verità scomoda: la fotografia mente, è una bugia, non ascoltatela, non dategli retta, ogni scatto (ogni scatto) è una sirena magnifica che chiede di essere ascoltata. Non fatelo è solo una (bellissima) menzogna.
Non tornano i conti davanti una fotografia di Giacomelli, ogni lavoro confonde il tempo e presenta istanti diversi in uno stesso foglio. In ogni opera del selvaggio si incontrano frammeti di vita sovrapposti, così fusi e inscindibili quanto distanti e impossibili nella realtà. L’istante esatto di uno scatto incontra l’istante esatto di un altro scatto, di un altro rullino, in un altro anno. L’ordine cronologico della vita ne esce a pezzi, distrutto e nudo confessa di essere solo una stupida (troppo stupida) convenzione umana. L’opera di Giacomelli è lo specchio della sua paura della morte, dello scorrere inesorabile del tempo e se pure la fotografia è una bugia, comunque ferma l’attimo e lo tiene lì, immobille, senza farlo procedere verso l’oblio. È un patto duro per il primitivo, un boccone da mandare giù amaro che accetta solo perché esorcizza il terrore della fine. La sua più grande invenzione è stata quella di non nascondere niente e fare dello svelamento la sua poetica, il naso lungo della fotografia è lì davanti a tutti, a chiunque guardi un suo scatto.
Non tornano i conti davanti una fotografia di Giacomelli e per vederlo basta visitare la mostra al museo di Roma in Trastevere che presenta una serie di opere provenienti dall’archivio di Luigi Crocenzi che ripercorrono tutto il percorso selvaggio del primitivo: dalle prime foto agli ultimi autoscatti quando la morte era vicina e lui voleva diventare immortale. Usciti dalla mostra chiedete a qualcuno se ha l’impressione di aver visto delle foto o piuttosto dei brandelli di realtà buttati sulla carta come shangai sul tavolo, perchè Mario Giacomelli sta alla fotografia come l’astrologia all’astronomia: il figlio folle di una madre saggia.
fino al 20 gennaio
Museo di Roma in Trastevere, piazza sant’Egidio, Roma