Arte & politica, icone senza anima

Due strade molto distanti e destinate a incontrarsi di rado. Arte e politica, politica e arte: uno scivoloso chiasmo che sembra aver perso da tempo quella frequentazione tipica della militanza cara a buona parte del Novecento. Certo, rimane il fascino dell’ambito politico – più che dei soggetti, in crisi nera di credibilità – ma in un’ottica del tutto ribaltata. Non testimoniare, ma sorprendere e al massimo spiazzare. Cercare, insomma, d’infrangere «quell’anestesia provocata dalla sovraesposizione iconografica di questi ultimi dieci anni», come dichiara Stefania Cavatorta, raffinatissima disegnatrice per il gruppo Rcs. «Se accendo l’attenzione – aggiunge – provoco una reazione nel fruitore. Anche perché è impossibile, oggi, trovare i confini netti tra l’arte, la pubblicità e l’informazione». Vedi alla voce Shepard Fairey, il quarantenne grafico di Charleston, South Carolina, che ha accompagnato la scalata di Barack Obama alla Casa Bianca trasformandone l’effigie in un’insuperabile icona planetaria. Ma se, tornando ai nostri quattro cantoni, Silvio Berlusconi e il suo codazzo hanno ormai otturato la nostra fantasia con la loro bulimia mediatica, che senso ha sceglierne ancora la faccia per popolare le proprie creazioni? Perché non un paesaggio, l’astrattismo, un volto anonimo, un fico in fiore ma ancora la D’Addario e le sue amiche baresi?

«Sono sempre più convinto – si difende il modenese Wainer Vaccari, sulla scena dal lontano 1980 e autore di tele che ritraggono il premier in compagnia della sua escort pugliese – che tutte le immagini che i nostri occhi quotidianamente prendono in carico si equivalgano. Quindi anche il soggetto politico». Per la serie: la politica ha ormai smarrito del tutto quell’aura – tanto per scomodare i vecchi amici della scuola di Francoforte – di autorevolezza da tramutarsi in una cosa come un’altra. Zero differenze: la scelgo perché sì. E da predisporsi dunque per una serie di riletture e personalizzazioni come ogni altro tema del creato e del fantastico, senza arrivare alla satira dei vignettisti, il cui intento è fin troppo chiaro: «Nel mio caso – puntualizza Vaccari – l’immagine non viene deformata e caricata di altri significati ma semplicemente riplasmata e modificata con effetto cover attraverso il linguaggio della pittura».

Una cover, come si farebbe con una canzonetta. Non solo. Occuparsene può fungere anche da salvifico atto di autoterapia, come suggerisce sornione l’austriaco Michael Endlicher: «Nutrire il bambino che c’è in noi prendendoci gioco della stolta arroganza dei politici tramite la nostra arte può essere un atto di sanità mentale, si spera non solo per gli artisti». Il viennese è un autentico giocoliere di parole e immagini, dal curriculum che più sghembo non si può: laurea in “business administration” e lavoro come “copywriter” e “project manager” prima di mettersi a invertire icone, da Che Guevara fino a – come ti sbagli – Berlusconi. Endlicher, tuttavia, pensa che l’arte sia ancora organica a certe velleitarie ideologie: «La militanza vende, specialmente nel mondo dell’arte. La differenza col passato, con George Grosz, con Guernica di Picasso, con gli artisti del movimento contro la guerra in Vietnam, è questa: oggi la globalizzazione neoliberale impone un’ultra commercializzazione che porta alcuni personaggi a sposare delle affinità che ne squalificano la propria ispirazione».

L’austriaco squaderna così in un sol colpo l’altro capo della questione: da come la politica influenza l’arte nei linguaggi e soprattutto nei temi e nei problemi a come l’arte può suggestionare la politica. «Credo sia molto difficile, se non impossibile, che l’arte possa dire qualcosa ai politici – confida Hanoch Piven, maestro israeliano d’origini uruguaiane della caricatura tramite collage – senz’altro non può nulla quella esposta nelle gallerie. Ma anche la satira non ha alcuna influenza». Non è così pessimista la Cavatorta, secondo cui «se l’arte riflette l’idea che un artista ha del mondo, se deve tradurre la sua visione della vita, allora può tornare a essere manifesto estetico e comunicativo». Di più: «Può anche recuperare il suo significato politico e sociale». Come dire, però, che i propri lavori possono servire a disegnare un intimo manifesto politico, di certo non a ispirare quello altrui. Tantomeno l’agenda di chi ci governa. «L’arte non può cambiare nulla – chiude secco Endlicher – al massimo può dare qualche stimolo in più, tipo far ridere o rattristare intensamente. La domanda è, piuttosto, opposta: è mai servita veramente a qualcos’altro?».