Camporesi, ideali finzioni reali

C’è chi usa la fotografia come valvola di sfogo per le sue emozioni. Quelli che scattano travolti dall’onda di una suggestione, che rimangono affascinati dal contrasto di luci e ombre, che si innamorano di squarci di realtà, di volti, di mani, di angoli e di strade. Ci sono fotografi che vogliono a tutti i costi fermare un attimo irripetibile senza chiedersi perché e altri, invece, che fanno del mezzo uno strumento valido a delineare un progetto complesso, studiato a tavolino, descritto e pensato come una sceneggiatura cinematografica. La fotografia diventa così solo l’ultimo tassello di un processo artistico con una natura decisamente articolata. E in quest’ultimo caso rientra il lavoro di una giovane quanto affermata artista emiliana, Silvia Camporesi. Una laurea in filosofia alle spalle, conseguita all’università di Bologna, e la voglia di fotografare cresciuta nel tempo. Per lei la fotografia è «un modo per mettere sotto vuoto le idee». Idee artistiche che prendono vita tra bozzetti e storyboard e trovano nelle foto il loro momento finale. Da tempo attenta anche alle possibilità suscitate dalla videoarte, la Camporesi cerca di raccontare con i suoi lavori un’evoluzione, va alla ricerca di qualcosa che, se da un parte non è mai uguale a se stessa, dall’altra non tradisce mai la sua natura.

Cosa significa prendere in mano la macchina fotografica? Quali sono le sensazioni che provi quando lavori?

«L’uso che faccio della macchina non è classico. Il processo artistico parte da lontano, lo scatto è solo l’atto finale di una serie lunga di passaggi. Inizialmente c’è un progetto di lavoro molto ampio che prende vita e si divide in sottoinsiemi: ognuno di essi diventerà una fotografia o un video. Dal momento in cui ho gettato le basi procedo come se si trattasse di un film. Scrivo una piccola sceneggiatura per ogni immagine, realizzo uno storyboard e proseguo alla ricerca del materiale che serve alla creazione dello scatto. L’emozione nel lavoro, invece, è uno stato crescente, l’ingrediente necessario e indispensabile perché il progetto prenda forma, ma paradossalmente tende ad andare di pari passo con i momenti di sconforto».

I tuoi lavori si dividono tra minimalismo, inquietudine, intimismo. Cosa cerchi quando guardi nell’obiettivo?
«Voglio raccontare uno stato di passaggio, un’evoluzione. Cerco di partire da un punto ben preciso e e attraverso nuove consapevolezze arrivo altrove, spostando la soglia del limite. Le immagini, scatti o video, ritraggono frequentemente soggetti in una generale atmosfera di sospensione, essendo prive di connotazioni spazio-temporali. Il soggetto interpreta sempre un ruolo, non è mai se stesso e comunica simbolicamente attraverso la posa e gli altri elementi che compongono la scena. Anche per raggiungere questo risultato il minimalismo è fondamentale».

Quando hai capito che la fotografia sarebbe stata uno dei pilastri della tua vita?
«Ho studiato filosofia a Bologna e durante gli anni dell’università mi sono appassionata alla fotografia, con il passar del tempo ho iniziato a comprendere le sue enormi potenzialità e a intenderla come strumento capace di raccontare un’idea. Da quel momento ho iniziato a usare la macchina con una consapevolezza diversa: la fotografia come immagine di una messa in scena, qualcosa che esiste solo per essere fotografato».

E la videoarte?
«il passaggio dalla fotografia al video è stato naturale. In certi casi un’immagine fissa non è sufficiente a raccontare un’idea complessa, allora la scelta inevitabile è la videoarte. Come per la fotografia non mi interessa la narrazione, ma il racconto emotivo».

Via il romanzo, avanti la poesia.
«Sì, il mio è un procedimento molto più simile alla poesia che al romanzo, si va per accostamenti e per metafore, non per sequenze temporali».

Sei quasi sempre la protagonista delle tue fotografie e video, sempre te stessa eppure in continuo cambiamento.
«In alcuni lavori interpreto personalmente i soggetti che mi interessano, come nel mio ultimo progetto Eravamo persone come alberi, in cui vesto i panni di cinque donne realmente esistite che rappresentano casi al confine tra misticismo e follia. Questa personificazione multipla è per me necessaria perché da una parte suscita riflessioni che mi riguardano direttamente, e dall’altra perché le loro pratiche m’interessano più che mai, mi fanno capire quanto possa essere forte la fede in qualcosa».

Per te essere un’artista cosa significa?
«Significa fare molta fatica mentale e fisica, ma provare anche moltissime emozioni. Significa avere sempre un rifugio, un luogo dove tornare in ogni momento, qualcosa che non ti tradisce mai. Significa essere precari, non solo a livello economico ma più in generale in senso esistenziale».

Se dovessi reinventarti da cosa partiresti?
«Sicuramente studierei la matematica in maniera più approfondita e mi dedicherei alla musica».

La tua arte in tre parole.
«Acqua, aria, fuoco».

Progetti futuri?
«Ho in mente un video sui dervisci rotanti – danzatori che danno all’esibizione artistica un significato trascendentale – per questo andrò presto in Turchia sulle loro tracce».


L’ARTISTA

Mille volti, un solo soggetto

Silvia Camporesi nasce a Forlì il 24 febbraio 1973. Si laurea in filosofia all’università di Bologna. Principalmente attenta alla fotografia, da alcuni anni si cimenta, con successo, nella videoarte. Facendo spesso ricorso all’autorappresentazione, la Camporesi nei suoi lavori costruisce racconti che traggono spunto dal mito, dalle religioni, ma anche dalla letteratura e dalla vita reale. Le sue fotografie e i suoi video sono l’ultima fase di un progetto creativo che parte da lontano e si costruisce come se fosse una sceneggiatura e una scenografia teatrale, cinematografica. L’artista riesce a regalare a ogni scatto, sequenza video, personaggio, una sembianza metafisica all’interno di una dimensione che, seppur pertinente al reale, si tramuta in un qualcosa senza luogo e senza tempo. Tra i finalisti del Talent prize 2008, ha alle spalle diverse personali e collettive sia in Italia che all’estero.