Pecci, Prato cambia pelle

Prendendo in prestito la celebre frase della Settimana enigmistica, “forse non tutti sanno che” il museo Pecci di Prato è stato il primo museo italiano di arte contemporanea costruito per promuovere le espressioni artistiche contemporanee. Più che l’architettura, quasi mimetica rispetto al circostante contesto industriale, sono stati i lavori collocati all’esterno a connotare il centro, rendendolo il primo museo “rivoluzionario” d’Italia. Esempi di queste opere sono La luccicante colonna spezzata Exegi monumentum aere perennius del 1988 di Anne e Patrick Poirier, così come la mezzaluna di Mauro Staccioli, Prato 88, opere talmente imponenti che chiunque, uscendo al casello autostradale Prato est, ha visto almeno una volta.

E “forse non tutti sanno che” la Fabbrica della cultura disegnata da Italo Gamberini è stata anche il primo lavoro a indirizzare le scelte artistiche, incentrate esclusivamente sull’attualità, del museo toscano: Amnon Barzel, fondatore e primo direttore del centro Pecci, chiese che non si guardasse più indietro di dieci anni. Risale, infatti, al 1988 la donazione di Enrico Pecci al comune di Prato che fa nascere il centro. Una storia fatta di grandi mostre, da Alberto Burri e Lucio Fontana fino a Mario Mertz e a Gerhard Richter, grandi collettive – il centro Pecci è stato il primo museo a lanciare, scoprendola, l’arte dell’ex Urss – rassegne, festival e concerti, ma anche di scommesse ancora non del tutto vinte. Nel ventennale del 2008 il centro Pecci, diretto da Marco Bazzini, ha deciso, però, che qualcosa doveva essere cambiato radicalmente. Ed è Stefano Pezzato, responsabile area artistica, a raccontare le prospettive. «Cos’è stato il centro Pecci e di cosa ha bisogno adesso: questi i temi di una riflessione che ci ha portati proprio alla valutazione degli ambienti architettonici. È uno spazio pensato per essere una Kunsthalle: esposizioni temporanee, attività didattica e biblioteca. Un centro senza collezione permanente, insomma. Ma ormai il Pecci conta su una raccolta di circa 1.300 opere e i nostri magazzini sono colmi. Ed è un peccato non esporle. Per le opere stesse e per ciò che rappresentano, una sorta di sedimentazione di tutto ciò che a Prato è passato e accaduto, compresa la successione delle diverse direzioni curatoriali del museo. Abbiamo sentito la necessità di testimoniare tale percorso e questo luogo doveva finalmente diventare un museo vero e proprio».
E avete convinto anche la regione Toscana che ha indirizzato sul vostro progetto ben 5 milioni e mezzo di euro dai fondi europei. Altri 2 milioni saranno devoluti all’accademia di Belle arti di Firenze.
«Questo progetto è piaciuto sia al principale sponsor, cioè al comune di Prato che gestirà il progetto di ampliamento, sia alla regione Toscana che finalmente si è interessata al centro quale testa di ponte per l’arte contemporanea nella regione. Con il progetto Tra-art, comunque, era già stato dato come indirizzo di spesa quello di non disperdere i finanziamenti ma concentrarli sulle eccellenze».
Del resto la questione sul costruire o meno un centro per l’arte contemporanea a Firenze rimane questione aperta e forse puntare su quello già esistente di Prato fa comodo a tutti. Come vedete la creazione di un centro fiorentino?
«Esistono luoghi come la Germania o la Francia dove musei – Kunsthalle e Kunstverein – convivono l’uno accanto all’altro. Il problema dell’Italia è il pubblico. Ci vantiamo del patrimonio storico ma non siamo in grado di costruirci quello futuro. Lo si vede nelle periferie, nella cartellonistica pubblicitaria che invade ogni spazio, nella mancanza di progetti urbanistici di qualità: un disorientamento palpabile anche solo girando per le città. Siamo preda di un inquinamento visivo degradante, completamente diseducati alla visione. In Italia non siamo in grado di interpretare, e quindi capire e apprezzare, l’arte di oggi. Il museo di arte contemporanea, in quest’ottica, è un necessario investimento per il futuro».
E qual è il progetto che avete scelto per rinnovare e potenziare il centro?
«Dovevamo creare lo spazio necessario all’esposizione della collezione permanente. E poi rendere più funzionale la macchina museale: accoglienza, bookshop, bar, ristorante. L’architetto scelto per il progetto non è un archistar ma un emergente. Una scelta che da Bilbao in poi è diventata controcorrente. Maurice Nio, olandese, non ha mai costruito musei ma lavora da sempre sui luoghi di circolazione ad alto scorrimento, e questo è sembrato essere un nodo cruciale che deve affrontare la nuova architettura del Pecci, collocato tra l’autostrada e i viali ad alto scorrimento della zona industriale e commerciale. E così la famiglia Pecci lo ha scelto. Ovviamente il nuovo progetto doveva legarsi al preesistente e Nio è stato ispirato proprio dalla planimetria del centro che già presentava a terra l’anello diventato una struttura aerodinamica metallica. La torre a zig zag dovrà essere una sorta di sensore, atto a captare e diffondere stimoli culturali».
E la sede di Milano?
«È stata un’idea del presidente, Valdemaro Beccaglia, che ha pensato di proiettare il Pecci e la città di Prato su Milano, in vista dell’Expo 2015. Milano del resto è l’unica metropoli italiana davvero protesa al contemporaneo. Ed è lì, quindi, che vogliamo far sapere che in Toscana non ci occupiamo soltanto di arte antica».
Parliamo delle note dolenti: l’affluenza. Non sono numerosi i visitatori del centro. Un problema che non riguarda solo il Pecci.
«Per dare una cifra tonda le dico che sono 100mila le persone che ogni anno frequentano il centro, il 15% per le mostre, il resto per gli spettacoli, le attività educative, le altre iniziative. Il museo non è un parco giochi né un centro commerciale, anche se certo può mirare ad avere anche un’attrattiva economica, con un bookshop attraente, un ristorante che funzioni anche la sera. Il problema però è che siamo un paese irrimediabilmente seduto di fronte alla televisione. Se passi le Alpi le persone non vanno solo allo stadio, vanno anche al museo, e parlo dell’operaio non dello studente dell’accademia. Ma se questo è il livello della nostra attenzione alla produzione culturale, sarà per questa che saremo ricordati».
Ma perché è così bassa l’attenzione in Italia?
«Pensiamo anche soltanto ai media: quanto spazio è dedicato all’arte? Ricordo solo Philippe Daverio come presenza costante in televisione. La nostra è davvero una battaglia alla don Chischiotte, ma deve essere fatta. Se togli da questa città il centro Pecci, il teatro Metastasio e Officina giovani, cosa resta? Sarebbe come togliere l’anima a Prato».


LE SEDI

Dalla Toscana alla Lombardia: irrompe il Pecci

Il Museo Pecci Milano inaugura il 14 aprile, in occasione del Salone internazionale del Mobile, con un’istallazione di Maurice Nio, l’inedita “Dark matter”. La sede milanese è una sorta di spazio satellite che ospita eventi in accordo con la casa-madre, come da maggio le presentazioni dei lavori di Paolo Canevari e Gianni Pettena. Il Museo Pecci Milano è in zona Navigli, Ripa di Porta Ticinese, e sorge all’interno di un vecchio capannone industriale di 700 mq – quasi la metà di quello attuale pratese – ristrutturato con un investimento di circa 190mila euro. Il Centro di Prato, invece, raddoppia letteralmente i suoi spazi. L’inaugurazione è prevista nel 2012. Nei nuovi ambienti toscani, disegnati da Maurice Nio, aperti e circolari, troveranno posto le mostre temporanee, mentre in quelli preesistenti sarà finalmente visibile la collezione permanente. Info: www.centropecci.it.