Keith Haring a palazzo Reale

Era il settembre 2005 quando la Triennale di Milano apriva la mostra The Keith Haring Show curata da Gianni Mercurio e Julia Gruen; una delle più grandi esposizioni retrospettive al mondo dedicate a Haring che raccoglieva circa cento dipinti, quaranta disegni, numerose sculture, opere su carta di grande formato, una vasta documentazione fotografica e circa seicento immagini per documentare il contesto attorno a cui è nata e si è sviluppata la sua arte e per dare corpo al concetto di All Over caro a Haring, secondo cui l’arte deve poter essere per tutti e dappertutto. Nell’immaginario collettivo, negli anni, l’arte di Haring è stata poi percepita come espressione di una controcultura impegnata su temi propri del suo e del nostro tempo, come la droga, il razzismo, l’Aids, l’alienazione giovanile. Ma Haring non è stato solo questo.

Dopo dodici anni Gianni Mercurio torna a Milano per raccontare questa volta il senso profondo e la complessità della ricerca dell’artista statunitense e, attraverso l’esposizione di più di cento opere, per mettere in luce il suo rapporto con la storia dell’arte. All’interno del percorso vengono posti in dialogo, infatti, le sue fonti di ispirazione: dall’archeologia classica alle arti precolombiane, dalle figure archetipe alle maschere del Pacifico fino ai maestri del Novecento. «Keith Haring non è l’artista degli omini, non è un simpatico designer. È molto di più. Haring è stato un creatore di relazioni tra le epoche e le culture, un generatore di simboli: soprattutto un uomo che ha sfidato la pigrizia del pensiero», con queste parole il Sindaco di Milano, Giuseppe Sala, ha parlato della mostra di Palazzo Reale (promossa e prodotta dal Comune di Milano-Cultura, Palazzo Reale, Giunti Arte mostre musei e 24 ORE Cultura – Gruppo 24 ORE), che si propone proprio di evidenziare l’impresa attuata da Haring di ricomporre i linguaggi dell’arte in un immaginario simbolico e universale nel quale l’uomo è messo al centro, della società e della sua individualità.

Keith Haring, palazzo Reale

Tuttavia, Haring non si preoccupava di rendere riconoscibili le sue fonti, al contrario le occultava per farne emergere il loro umore. Il suo approccio all’arte, spiega il curatore, era connesso all’idea di simultaneità secondo il quale non c’era nulla che non meritasse di essere rivissuto; il cambiamento avviene nel contesto, non l’uomo, e l’unico modo per affermare l’attualità era, per l’artista, dare immagine a un sentimento attraverso il linguaggio dello spirito del tempo. Nei suoi diari l’artista si definiva ”un anello di una catena”, ovvero ”una parte necessaria di un’importante ricerca – quella artistica n.d.r. – che non ha fine”.

L’immagine scelta per rappresentare l’esposizione, Unfinished Painting, racchiude tutta la sua visione narrativa e rapporta il non finito alla ciclicità della vita; il non finito qui coincide con ciò che è senza fine: ultimo di cinque dipinti realizzato nell’estate del 1989 dopo un viaggio in Marocco, a pochi mesi dalla morte, il dipinto si ispira agli arabeschi e crea un ibrido stilistico che amalgama astrazione e naturalismo. Solo un quarto dell’opera è dipinto, i limiti sono nettamente delineati, le sgocciolature di colore sono minuziosamente simulate, il senso di sospensione apre a infinte possibilità di racconto. Un fare per nulla superficiale, ma semplice e leggero, in grado di andare al cuore delle questioni misteriose ed eterne della vita con onestà e candore, che ricorda l’incanto con cui l’artista bambino guardava i fumetti che il padre disegnava per lui.

Fino al 18 giugno; palazzo Reale, piazza Duomo 12, Milano; info: www.palazzorealemilano.it