Non chiamatela Gnam

Articolo tratto da Inside Art 106

Dieci mesi dietro le quinte, un lavoro in levare. E poi il sipario si apre. I passi dei visitatori alla Gnam non trovano più il loro riflesso sugli specchi rotti, i Passi di Pirri non ci sono più, a forza di levare è rimasta solo l’architettura. Oltre il sipario la nuova mostra The Lasting rivela i primi cambiamenti dell’allestimento museale completo però solo da ottobre. L’attesa è molta, per non parlare poi dell’eredità, un fardello che pesa sulle spalle di Cristiana Collu, direttrice e regista di questa risignificazione dello spazio. Spazio granitico, con una storia di successi e fallimenti, che ha davanti la possibilità di una rinascita. A cominciare dal nome, La Galleria Nazionale: «Gnam – dice la direttrice Collu – non appartiene alla storia di questo museo».

Cosa significa essere direttrice della Galleria, soprattutto in termini di responsabilità ed eredità?
«È difficile rispondere perché non mi penso mai in questo ruolo. Mi metto sempre in relazione con il luogo in cui mi trovo, disponibile ad accogliere ogni tipo di suggestione. Poi bisogna riuscire a tradurre quello che hai percepito da uno spazio e per me si riassume in una frase: l’aver colto il tasto che non suona, come qualcosa che viene detto a bassa voce. Per il resto tendo a non rifletterci troppo perché è una responsabilità molto grande, ma è un incarico di cui non si deve sentire il peso, va inteso come una missione. Se fossi arrivata qui con una certa idea di quello che volevo fare e l’avessi fatto a prescindere, forse questo dialogo non ci sarebbe stato. Invece da parte mia c’è sempre disponibilità a cambiare, mi sento molto plastica».

È il cambiamento che regge anche il nuovo allestimento del museo?
«Questo tipo di operazione però non l’ho fatta partendo da una strategia a tavolino. È nata naturalmente, fa parte di un processo tradotto in una sottrazione. Come la musica è in battere o in levare, così questa operazione è in levare, una sorta di contro tempo, una sottrazione, simile a un lavoro archeologico per arrivare alla fonte. Ho cercato di arrivare a questa sorta di configurazione primigenia, quella architettonica del luogo. Volevo togliere tutte le stratificazioni e le superfetazioni e portare il mio sguardo in una maniera completamente reversibile. Non ho fatto altro che riportare l’architettura alla luce. A questo si aggiunge una visione contemporanea di ospitalità: le persone che arrivano si sentono accolte, è uno spazio che non chiede immediatamente di fare un biglietto, non ti viene addosso, sei tu invece che entri dentro e capisci in maniera intuitiva come puoi usarlo. È una sorta di filtro, dove capisci che puoi stare, non di attraversare il museo ma abitarlo temporaneamente».

Lo smantellamento dell’opera di Alfredo Pirri ha suscitato molte polemiche, forse non è stato compreso il senso dell’operazione?
«Credo che questa reazione c’entri con l’aspetto del temporaneo che diventa definitivo, per me non c’era nessun tipo di polemica, se non l’idea che un’opera temporanea è tale. Non c’era l’intenzione di sostituirla con un’altra, quanto reimmaginare quello spazio per altre funzioni e restituirlo al pubblico in maniera differente. È in corso un restyling dell’identità della galleria: il sito è completamente rinnovato e anche il logo, con la scritta La Galleria Nazionale. In questo discorso archeologico c’era l’intenzione di capire quando l’identità di questa galleria si era persa, per ragioni legate a una fatica amministrativa, gestionale e finanziaria. Tra l’altro il nome Gnam non appartiene alla storia di questa galleria ma più al momento in cui è nato per esempio il Mart, cioè quando gli acronimi erano fondamentali per i musei, soprattutto in Europa. In questa sorta di recupero di identità istituzionale e nazionale, in virtù della nostra collezione e dell’edificio, si voleva riportare le cose all’origine, con una sorta di riposizionamento, che è stato fatto anche pensandoci come l’unica galleria di arte nazionale di arte moderna e contemporanea tra i musei del ministero. Nel rifare l’immagine coordinata, questo aspetto istituzionale, molto sobrio, asciutto per me viene fuori in maniera abbastanza forte».

Guardando i dati dell’affluenza dei visitatori nei musei e monumenti di Roma, i luoghi dell’arte contemporanea sono in netto svantaggio. Secondo lei è normale in una città che potremmo definire classica, o si potrebbe invertire questa tendenza?
«Dappertutto è così, perché le persone hanno una conoscenza, anche scolastica, che ha creato una familiarità, fonte di sicurezza. In fondo si va a vedere quello che un po’ si conosce già, invece quello che è del tutto nuovo pone delle questioni ed è la ragione per cui a molte persone risulta ostica l’arte del nostro tempo. Si possono aumentare i visitatori, che sono davvero pochi, però che ci sia una prevalenza straordinaria in una città come Roma penso che sia naturale, non è da vivere come un dramma. Ma non credo che l’indice delle performance di un museo possa essere quantificato sui numeri dei visitatori, è un tipo di investimento molto diverso perché è una scommessa sul presente, è un racconto di percezioni del nostro tempo, spesso anche crude e che non sempre vogliono essere guardate».

Sono previste collaborazioni con gli altri due musei di arte contemporanea romani?
«Con il Maxxi sono già attive, l’intenzione è di ragionare insieme per il bene delle istituzioni. Non c’è nessun antagonismo, ma l’idea di creare un percorso del contemporaneo, delle collaborazioni con la massima autonomia e il massimo sostegno possibile. Sono convinta che anche con il Macro non tarderanno ad arrivare».

A ottobre la Galleria apre una nuova mostra, anche l’allestimento della collezione permanente sarà diverso?
«Inauguriamo Time out of joint: è una riflessione, iniziata con The lasting, sul tempo disarticolato che per me si sintetizza con l’idea del “super now”, perché in fondo Roma è l’esemplificazione di questa idea di iper presente, di simultaneità. Quello che faremo è attraversare due secoli, che sono la collezione del museo, e raccontare questo tempo disarticolato che viviamo. Ci sono delle preconizzazioni del futuro o un’archeologia del presente. È una visione della nostra collezione, che racconta un’altra storia, è come se avessi un alfabeto e potessi formare molti racconti e spesso invece in virtù del privilegiare continuamente questa visione cronologica, ordinata, alcuni accostamenti, cortocircuiti che sono invece quelli generativi, sfuggono continuamente».

Cosa si augura che faccia il nuovo comune di Roma per l’arte contemporanea?
«Intanto mi auguro di poter avere un dialogo, perché altrimenti sarà difficile fare in modo che una rete che esiste già funzioni realmente. Ci vuole qualcuno che coordini questo tipo di relazioni, che ascolti e poi faccia una sintesi, questo è il primo discorso da fare, insieme a quello della comunicazione».

Cristiana Collu
È diventata direttrice della Gnam nel 2015 in seguito alle nomine internazionali volute dal ministro dei beni culturali Dario Franceschini che hanno riguardato 20 nuovi direttori di musei italiani.
Prima di questo incarico ha compiuto studi in arte medievale all’Università di Cagliari e poi ha fatto diverse esperienze all’estero, tra le quali in Spagna e in Australia. Ha vinto nel 1996 il concorso per direttore del Man, Museo d’arte della provincia di nuoro, diventando la più giovane direttrice di museo in Italia a soli ventisette anni. Dal 2012 è stata direttrice del Mart, Museo d’arte di Trento e Rovereto e, per un breve periodo, dell’Isre, Istituto superiore regionale etnografico di Nuoro.

Qui il nostro servizio sulla mostra Time is out of Joint.
Info: lagallerianazionale.com

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