Lu Yang, la biologia psichedelica e l’horror fluo

Shanghai

Come alcuni dei personaggi che crea, Lu Yang è uno scienziato pazzo, un’icona pop, un’eroina visionaria, il personaggio di un manga, ma soprattutto una ragazza di Shanghai che ama immaginare nuove identità per sè e per gli altri. I lavori multimediali di questa giovane artista nascono dalla sua peculiare comprensione del mondo e combinano video, grafici, illustrazioni, stampe e installazioni per toccare argomenti connessi alla scienza, alla tecnologia, biologia, religione, psicologia e molto altro, riflettendo al tempo stesso sulle istanze di controllo presenti nelle società moderne. La scioccante combinazione da lei operata tra apparente giocosità, visioni grottesche e un linguaggio da manuale istruzioni l’hanno resa l’artista multimediale cinese più controversa della sua generazione.

LA DIALETTICA
Il codice visivo cui Lu Yang ha dato vita deve molto al mondo delle arti elettroniche e degli anime giapponesi (di cui è grande ammiratrice) e può essere definito pop con sfumature acide: nel suo lavoro questa estetica è usata principalmente come un contenitore vuoto da riempire con visioni stratificate, attraverso la scrupolosa indagine dei diversi aspetti della ricerca e pratica artistica. Capace di creare una sintassi originale e genuinamente postmoderna, Lu è molto interessata all’applicazione virtuale e reale della biologia all’arte multimediale. Uno dei suoi progetti più conosciuti, Wrathful King Kong Core (2011), è un tentativo cervellotico quanto riuscito di sovrapporre un tipo di iconografia religiosa e schemi rigorosamente scientifici, articolato intorno a due ordini di concetti: il mandala buddista e i videogiochi, entrambi vicini alla struttura del labirinto, in quanto concepibili come mondi fisici (ovvero dominati dallo spazio), e mentali o psichici (controllati dal tempo).
Questo lavoro, scelto per la Biennale di Shanghai 2013, è connesso alle manifestazioni fisiche della rabbia e al suo significato mistico all’interno della simbologia buddista; il meccanismo della rabbia viene descritto dall’artista nel modo seguente: «quando si manifestano i primi impulsi di rabbia, lil segnale è prima trasmesso all’ipotalamo. Quest’ultimo attiva l’amigdala per permetterle di svolgere determinate funzioni che a loro volta scatenano una reazione a catena stimolando altre aree del cervello. Tali aree sono responsabili della trasformazione dei segnali nervosi in espressioni visibili di rabbia».

Affascinata dall’estetica terrifica del Buddismo lamaista, Lu Yang la fa dialogare con un altro mondo che incute timore e incanta: quello dei videogiochi. In Lu, lo studio del sistema nervoso animale e umano è ibridato con elementi filtrati dall’immaginario pop con cui lei e la maggior parte dei suoi coetanei sono cresciuti: anime, film horror, ma anche la filosofia e la religione buddista. Un metodo simile richiede la conoscenza approfondita della materia di volta in volta trattata e molto tempo per la realizzazione, eppure non c’è niente di scontato nel prodotto finale: si può dire che una certa estetica dominante (sia essa l’iconologia buddista o diagrammi scientifici, campioni di laboratorio o rapporti medici) venga alterata e contaminata, fino a diventare il provocatorio prodotto di una mente iperattiva. Uno degli aspetti più interessanti del lavoro di Lu Yang è che dietro la superficie di immagini inquietanti e oggetti belli quanto freddi, c’è una costante attenzione verso gli aspetti aberranti della vita moderna – ad esempio la latente mostruosità di alcuni esperimenti di biotecnologia – e la consapevolezza di alcune circostanze universali e della loro inevitabilità, come il decadimento cui la materia è soggetta. Essendo fatti di materia, gli esseri umani sono esposti a processi degenerativi esattamente come gli altri animali e le piante: nell’installazione Fairy Land (2009), l’artista ha messo alcune pesche – in Cina simbolo di lunga vita e benessere – all’interno di una teca di vetro a temperatura costante e in particolari condizioni fisiche, lasciandole marcire a velocità controllata per tutta la durata della mostra. Poichè non c’è modo di arrestare questo processo, invece di soccombere al terrore che l’idea della malattia e della morte possono provocare, è consigliabile trovare modi di esorcizzare le paure e trasformarle in un gioco: così nel progetto dal titolo Krafttremor, il morbo di Parkinson viene associato alla musica elettronica (il titolo evoca la band tedesca dei Kraftwerk), attraverso la registrazione del tremore oscillatorio dei malati e la campionatura di bit musicali con le stesse frequenze; lo stesso avviene nel caso dei corpi sezionati e galvanizzati di rane usati per esperimenti di laboratorio. Un giovane giapponese, la prima persona volontariamente e completamente asessuata, diventa Uterus Man, un supereroe modellato a immagine e somiglianza dei personaggi degli anime-manga giapponesi alle prese con i paradossi di una maternità impossibile.
Tutte queste assurde fantasie sono molto più reali di quello si potrebbe pensare: la loro assurdità è esasperata per esprimere più efficacemente il lato spaventoso della realtà alla quale siamo esposti, ma della quale il più delle volte non siamo consapevoli, assuefatti all’effetto normalizzante della quotidianità. Lu Yang vuole sconfiggere l’orrore implicito nell’accettazione della mostruosità (solo perchè parte dell’esistenza) e rendere l’orrore quotidiano ancora più sinistro, proprio per smascherarne la vera identità. Tutto questo richiede ironia e coraggio.

A proposito del suo lavoro, Lu dice: «la mia forte affinità con l’idea del controllo, il controllo sulle persone e sugli animali, mi ha spinto a creare lavori utilizzando la tecnologia e media diversi. Un simile controllo dipende totalmente dalla natura cerebrale degli esseri umani, e dal fatto che non possono prescindere dalla realtà fisiologica; eppure le persone usano il loro corpo per creare dispositivi esterni che permettano loro di affrancarsi da queste limitazioni, o dalla malattia». Come un novello Frankenstein, Lu ha sviluppato una strategia personale per esorcizzare l’idea della morte dalla quale, per sua stessa ammissione, è terrorizzata, divertendo e confondendo al tempo stesso.

I LAVORI
«In particolari circostanze, non possiamo controllare il nostro corpo e il nostro comportamento, per esempio quando sogniamo, o facciamo un incubo». L’istallazione Ghost Bed (2006) comprende una maschera di silicone modellata su un volto che affiora da un letto di argilla ed è animata in modo quasi impercettibile da un meccanismo interno concepito per simulare i movimenti involontari del volto durante il sonno, quando il corpo sfugge al controllo della mente. Lu suggerisce in questo modo che la mostruosità può comparire nelle circostanze più banali: per svelare questa verità è sufficiente circoscriverala, isolandola dal suo usuale contesto. Così un viso in preda ai movimenti involontari della fase rem può risultare decisamente inquietante.

The Project of Krafttremor (2011) nasce dalla ricerca che Lu Yang ha condotto sul Parkinson, una malattia degenerativa del sistema nervoso centrale. Lu ha osservato, studiato e raccolto materiale di ogni tipo riguardante i trattamenti medici cui sono stati sottoposti anziani pazienti malati di Parkinson. Sebbene il risultato finale sia un video che riproduce lo stile e le atmosfere della musica elettronica, con colori acidi e suoni sintetizzati generati dal computer, la realizzazione del progetto ha reso necessario che l’artista si avvicinasse ai pazienti, seguendo le diverse terapie, incluse le più invasive, come la stimolazione elettrica profonda. The Project of Krafttremor è un’indagine sulla relazione contraddittoria tra la malattia e i suoi trattamenti e si compone di tavole e video che Lu ha prodotto per illustrare la malattia e le possibili cure, ma anche di campionamenti delle frequenze del tremito associato al Parkinson.
Attraverso la produzione e sistematizzazione di materiali apparentemente incompatibili, Lu Yang intepreta il conflitto tra controllo esercitato e quello subìto, la sintesi fra la trasformazione patologica del corpo e ritmi elettronici, riflettendo sui dilemmi etici di una società tecnologica. Un simile lavoro sfida i limiti morali e i tabù sulla malattia, insieme alla nostra resistenza nei confronti della sofferenza, la chirurgia sperimentale e il decadimento del corpo. Se guardando il video si può avere per qualche secondo il dubbio che l’artista stia sfruttando gli anziani malati filmati, più probabile è che stia cercando di sottrarli all’anonimato della loro condizione, espondendone la vulnerabilità (le persone malate tendono a essere trattate come bambini) e portando l’attenzione su una malattia che colpisce molte persone, ma per la quale non è stata ancora trovata una cura effettiva.

Anche Reanimation! Frog zombie underwater ballet è un progetto formato da un video, un documentario e diverse tavole. Iniziato nel 2009, è stato terminato nel 2011 durante una residenza al Fukuoka Asian Art Museum, con la collaborazione del dipartimento di biotecnologie della Fukuoka university. Il progetto culmina in un videoclip che mostra corpi sezionati di rane ballare in perfetta sincronia, in virtù di impulsi elettrici trasmessi da cavi a loro volta collegati a un Midi controller (o music box), che contemporaneamente produce beat musicali. Per evitare qualsiasi forma di crudeltà verso questi animali, l’artista ha usato esclusivamente corpi utilizzati in esperimenti precedenti, dando vita a un lavoro che rende omaggio alla ricerca del medico italiano Luigi Galvani, il quale nel 1771 scoprì che i muscoli degli arti inferiori di rane morte si contraevano a contatto con una scintilla, aprendo così il terreno per gli studi sulla bioelettricità.

L’ultimo progetto di Lu Yang, dal titolo Kimokawa Cancerbaby (2014), è un viaggio destabilizzante che sfida il modo consueto di rapportarsi all’idea della malattia, in particolare del cancro. Kimokawa è un termine giapponese che mette insieme concetti appartentemente incompatibili: ”Kimo” significa disgustoso, ”kawa” è l’abbreviazione di ”kawaii”, carino. Questo neologismo incongruo è legittimato da un approccio che integra le contraddizioni e trova la sua collocazione ideale nel lavoro di Lu. Come nella maggiorparte dei progetti di Lu Yang, anche quest’ultimo si compone di diversi elementi realizzati con differenti media, in questo caso oggetti in resina stampati in 3D, riproduzioni cromate di organi umani e di cellule cancerose multicolore esposte come campioni sul un letto di gel fluorescente all’interno di vetrini, ma anche istallazioni video e animazioni la cui grafica e suono ricordano i videogiochi degli anni Ottanta, proprio come i personaggi – organi umani umanizzati chiamati Cancer baby plastic kaiju – riprodotti anche in disegni da 8 bit e in lightbox, graffiti, stampe e quadri: tutti disposti negli ambienti dello spazio espositivo, convertito per l’occasione in un ospedale pop. L’approcco di Lu Yang al tema del cancro provoca il senso comune degli spettatori di qualsiasi provenienza.
Un tema simile evidentemente rappresenta (ancora) un tabù, forse perché si vuole mantenere da esso la maggior distanza possibile. Come nei precedenti lavori, anche per questo Lu è partita da una realtà disturbante, trasformandola in un assurdo circo che mantiene tutto il potenziale dell’oggetto iniziale, e lo esalta persino, grazie al ricorso a un linguaggio visivo accattivante. In Kimokawa Cancerbaby, l’artista ha trasformato gli organi esposti alla malattia in bellissimi oggetti di design o in buffi personaggi di un manga… Tutti resi carini al limite dell’oltraggio. Ho il sospetto che ”oltraggio” sia la parola chiave di questo progetto, anche se non necessariamente dal punto di vista dell’artista. Per quanto possa sembrare un’opinione difficilmente condivisibile, trovo ci sia qualcosa di intrinsecamente estetico negli ospedali (d’altra parte tutto ha un’estetica), dal quale Lu sembra essere irresistibilmente attratta: questa forma di attaccamento potrà inorridire alcuni, ma di sicuro parla di qualcosa che è sempre presente, anche se in modo latente.
Quello che Lu mette in atto è in sostanza una normalizzazione del cancro attraverso la sua estetizzazione, esattamente come qualsiasi altro aspetto del reale. Il progetto può essere visto al tempo stesso come un articolato commento su una realtà post-app in cui tutto deve essere modulare e colorato. Lu Yang ricorre allo stesso immaginario – già pienamente assimilato – popolato da piccole creature che si muovono al ritmo di ipnotiche melodie sintetizzate.

L’INTERVISTA
a cura di Mariagrazia Costantino

C’è un’esperienza personale che ha segnato la tua crescita individuale e artistica? Nell’infanzia di molti artisti c’è stato un momento particolare che ha influito sulla loro decisione di dedicarsi all’arte. Anche per te è successo qualcosa di simile? «Penso di sì, e ha certamente a che fare con l’ambiente intorno a me, certe esperienze avute da piccola. In particolare, la ragione per cui molti dei miei lavori riguardano la medicina e diversi aspetti connessi è che da bambina ho trascorso molto tempo negli ospedali. Ho sofferto d’asma sin da piccola e la necessità di andare in ospedale mi ha avvicinata alla malattia e alla morte, e questo mi ha spinto a riflettere su questi aspetti».

Infatti nei tuoi lavori si scopre una familiarità con questi argomenti. Di solito la gente tende a tenersi a debita distanza da queste tematiche. Ma ci sono anche persone che all’opposto vogliono esplorarle sino in fondo, come nel tuo caso. «In realtà quello che faccio è semplicemente esporre aspetti naturali della vita, ma la gente di solito preferisce evitare di parlare di queste cose, forse perché pensano che non possono, o non devono capitare a loro. Questa repulsione deriva certamente dalla percezione della loro negatività e dal desiderio di starne il più lontano possibile. Questo per me è comprensibile e strano al tempo stesso, perché dopo tutto quello che stanno evitando è la realtà. Forse alcune delle persone inorridite dai miei lavori hanno ricevuto un’educazione piuttosto tradizionale, sin da piccoli gli è stato detto che di certe cose non si deve parlare, che non sono belle. Questo non riguarda necessariamente l’arte, ma alcune idee radicate… eppure penso che una reazione, anche se negativa, sia in ogni caso una cosa buona».

Puoi spiegare meglio la nozione di controllo e la sua funzione all’interno della tua ricerca? «Il tema del controllo è presente in buona parte dei miei progetti: ad esempio sia Reanimation! Frog zombie underwater ballet che Krafttremor hanno a che fare con il controllo. I due lavori hanno molti aspetti in comune ed entrambi riguardano il controllo: le persone all’interno di Krafttremor non possono controllare i loro movimenti, sono costantemente scossi da tremore, una malattia degenerativa (il morbo di Parkinson) impedisce loro il controllo dei movimenti; in Reanimation! Frog zombie underwater ballet non c’è più vita, infatti il movimento dei corpi inerti delle rane è attivato e controllato dalla corrente elettrica. Eppure, visti da un altro punto di vista, questo lavori presentano anche molte differenze. Quello che il pubblico può osservare in Reanimation! Frog zombie underwater ballet è soprattutto il confine vita-morte, insieme al sovvertimento della consueta associazione vita-movimento; il fatto che nel video quello che è già morto si muove di nuovo può sembrare strano se non inquietante, è proprio questo che spaventa le persone. Dall’altro lato, Krafttremor applica una prospettiva più razionale, perchè in una situazione in cui alcune persone perdono la capacità di controllare il proprio corpo, si può ritrovare una sintonia fra ritmo del corpo e funzioni del computer sul terreno comune delle frequenze. Quello che ho provato lavorando a Krafttremor è stato soprattutto un senso di impotenza. Una malattia come il Parkinson può privare della dignità, perché una volta che ha preso il sopravvento il malato non può controllare il tremore. Durante la realizzazione del video, quando ho detto alle persone affette dalla malattia che avrebbero dovuto compiere dei movimenti, queste sono improvvisamente diventate molto nervose e più nervose erano, più forte diventava il loro tremito».

Il controllo è uno dei segni distintivi degli esseri umani, ovviamente collegato alla nostra coscienza e volontà. Una volta che si è persa questa capacità, è facile sentirsi incompleti e ”difettosi”. Personalmente non credo che esibire la debolezza di questi malati sia il tuo obiettivo, ma il tuo lavoro attiva comunque una riflessione su questa condizione. «Non so se ha questa funzione, ma posso dire che alcune persone in mezzo al pubblico hanno fatto commenti molto pesanti quando hanno visto il lavoro qualche tempo fa. Pensano che io stia spettacolarizzando il lato debole dell’umanità, sfruttando queste persone in modo spietato. Sono consapevole dell’aspetto controverso dei miei lavori, ma so anche che possono servire a qualcosa. Una volta, mentre mi trovavo in Giappone per un workshop, un uomo anziano si avvicinò a me e mi disse che il mio lavoro lo aveva profondamente toccato, perchè due suoi cari amici malati di Parkinson erano morti da poco. Questo lavoro non espone solo la fragilità dei malati, ma anche alcune possibili cure come il trattamento chirurgico del Parkinson, chiamato “DBS – Deep Brain Stimulation,” che attraverso la stimolazione elettrica può ristabilire un controllo soddisfacente del corpo. Tutto quello che ho fatto vedere nel mio progetto sul Parkinson è successo agli amici di quest’uomo: anche loro si sono sottoposti all’intervento chirurgico, eppure alla fine non sono comunque sopravvissuti. Questa malattia colpisce in modo particolare le persone anziane, che sono anche più consapevoli della realtà dell’invecchiamento e della morte. Per loro queste cose non sono più un tabù, ma solo qualcosa che devono affrontare».

Capisco perfettamente. L’arte non ha sempre bisogno di essere radicata nella realtà, ma questo lavoro esprime un profondo legame con la vita. Per questo mi piace, perchè non cerca di evitare certe tematiche, ma riflette su quello che è legato all’esistenza quotidiana. Questo lo rende anche autenticamente transculturale, senza riferimenti a uno specifico paese o alla sua cultura. «Penso che il fattore transculturale che hai menzionato caratterizzi tutti i miei progetti. Non voglio che i miei lavori siano definiti da aspetti culturali o politici, cose che alcuni possono capire, altri no. Io parto da fattori biologici fondamentali e voglio attivare una forma di empatia profonda senza specifici riferimenti culturali o politici».

Reanimation! Frog zombie underwater ballet ha a che fare con le ricerche rivoluzionarie che lo scienziato Luigi Galvani ha effettuato nel Settecento. Mi puoi dire cosa ti ha spinto a realizzare questo lavoro, e con quale tipo di prospettiva? «Mi piacciono molto i libri di neuroscienze. All’università non ero affatto brava, specialmente nelle materie culturali, ma mi piaceva leggere questi libri per un mio interesse personale. È sui libri che ho letto degli esperimenti di Galvani, e dal momento che ho trovato l’argomento estremamente interessante ho cercato altro materiale sul web. Successivamente, ho comprato delle rane per condurre gli stessi esperimenti: il risultato ottenuto è stato incoraggiante così ho iniziato a pensare all’installazione. Però non avevo né soldi né gli strumenti per realizzarla, quindi inizialmente ho fatto solo tavole e diagrammi. Pur rendendomi conto dei limiti dovuti alla mancanza di fondi e a problemi etici connessi al progetto, con questi disegni ho fatto domanda per residenze presso musei e istituti. Un istituto giapponese ha accettato il mio progetto, ed è così che alla fine l’ho potuto realizzare».

Il tuo precedente lavoro Wrathful King Kong Core è collegato al Buddismo. È una delle cose che ti interessa esplorare? «Sì, sono molto interessata anche al Buddismo e ai suoi testi. L’idea alla base di questo lavoro in particolare è piuttosto insolita. Era il 2008, credo, e al tempo stavo leggendo un libro di neuroscienze, nel quale si spiegava il “meccanismo dell’ira,” ovvero le ragioni e il modo in cui si produce e si manifesta il sentimento della rabbia. Quando sul libro ho visto immagini della cosiddetta amigdala, ho improvvisamente concepito l’idea di combinare questa struttura con le immagini delle divinità buddiste. Questa è l’immagine che mi si è formata in mente, ma a causa dei costi di produzione non ho potuto realizzare il progetto fino al 2011, quando grazie all’aiuto di Zhang Peili, il mio professore, ho finalmente potuto produrre ed esibire il lavoro».

Wrathful King Kong Core è molto interessante. Nell’approccio occidentale, scienza e religione sono campi completamente separati, addirittura spesso opposti l’uno all’altro. Combinarli come hai fatto tu è insolito, ma anche notevole. «L’idea alla base di questo lavoro è estremamente rigorosa. Il mio assunto di partenza è che scienza e religione siano incompatibili. Dal punto di vista della religione, il sentimento dell’ira non deriva dal corpo e la “carne” è solo una manifestazione esteriore e visiva. La controparte dell’ira è la misericordia, per cui si tratta di un fenomeno ambiguo e duplice. Ma se considerato da una prospettiva scientifica, le nostre espressioni facciali sono prodotte da meccanismi psicologici originati nel cervello e riflessi nel movimento dei muscoli. Pertanto le due cose di fondano su principi antitetici».

Hai mai pensato, quando ti sei iscritta all’accademia, di dedicarti a linguaggi più convenzionali, come la pittura? «Sì. Quando frequentavo la scuola superiore, essere ammessi all’accademia era molto difficile, specialmente la China Academy of Art di Hangzhou e la Central Academy di Pechino. I miei amici e insegnanti cercavano di convincermi a fare domanda per entrare nel dipartimento di pittura a olio di una delle due accademie, perché secondo loro solo l’arte “pura” mi avrebbe permesso di diventare un’artista. Ma a scuola sono entrata presto in contatto con altri aspetti della cultura, come per esempio la musica o l’arte contemporanea. Una volta ammessa all’accademia, per il primo anno ho frequentato un corso base, solo al secondo anno ho potuto scegliere un dipartimento. Il mio approccio è sempre stato quello di trovare il giusto mezzo di comunicazione per mettere in pratica idee e concetti, perciò non avrei mai potuto essere una pittrice. E anche se all’Accademia sono stata presa per i miei quadri, sin dall’inizio ho voluto cercare tecniche differenti, esporare più media e arricchire in questo modo il mio lavoro, con il quale desidero mettere in pratica un tipo di ricerca inter-disciplinare e collaborativa. L’arte dopo tutto è una pratica limitata e io vorrei imparare di più dalla sua applicazione ad altri settori della conoscenza».

Cosa pensi del mercato dell’arte? Sei rappresentata da diverse gallerie, è una cosa che riesci a gestire? «Mi considero piuttosto fortunata, perchè intorno a me ci sono persone disposte ad aiutarmi a produrre i miei lavori, incluse le gallerie con cui lavoro. Per quanto riguarda il mercato, riesco a supportare la mia carriera. La cosa più importante per me è continuare a creare: la premessa del mercato dell’arte è mantenere la continuità del proprio percorso a tutti i costi. Per affrontare il mercato è necessario inoltre mantenere uno stile coerente».

Per ulteriori info: luyang.asia

Foto: courtesy dell’artista, dell’Ocat Shanghai e del Ren Space Shanghai