«Apollo si tira indietro e lascia passare i Mostri»: così, nei suoi Calcoli e Fandonie (1970), si esprimeva Leonardo Sinisgalli a proposito della frattura da egli avvertita tra l’esattezza della scienza e il fascino, anche morboso, del caos proprio del corredo genetico della letteratura.
Arretrando di cent’anni, all’università di Basilea, tanto Friedrich Nietzsche (La nascita della tragedia) quanto Jakob Burckhardt (Introduzione alla storia culturale greca) assestavano i primi colpi al positivismo radicale: sulla scia dei contributi di Johann Bachofen, l’obiettivo, sul piano propriamente filosofico, consisteva nel riscattare il pensiero mitico, di restituire una credibilità anche in chiave scientifica. Il Vecchio continente – ed in particolare l’area francofona è mitteleuropea – si trovò dunque, nei tre decenni che precedevano il Novecento, asfissiato da una cappa d’inquietudine, da un senso d’irrequietezza che spazzava via le ingenuità dei dogmi progressisti, ed è in tale temperie culturale che si sviluppa la carriera pittorica e scultorea di Jules van Biesbroeck.

Nato a Portici, nel 1873, Jules cresce in una famiglia di artisti: «suo nonno – così, nel 1904, Vittorio Pica su «Emporium» – era un orafo assai esperto nel cesellare i metalli, e suo padre ha coltivato e coltiva tuttora, con molto amore se non con pari fortuna, la pittura».
Non ancora sufficientemente indagato dalla ricerca, il profilo di Van Biesbroeck è stato recentemente riscoperto grazie agli sforzi della Galleria BPER Banca di Modena, la cui corporate collection conta un nucleo di 39 opere del maestro belga. A quasi sei anni dall’ultima personale (L’anima delle cose) gli spazi di Via Scudari tornano, dal 18 aprile al 29 giugno 2025, a ospitare una rassegna dedicata: Ferine creature, a cura di Luciano Rivi, offre uno sguardo sulla produzione a soggetto mitologico di Biesbroeck, concedendosi incursioni a ritroso e in avanti nel tempo – in mostra, anche un Apollo e Marsia di Guercino e un bronzo di Luigi Ontani del ‘73 (Gigante3razzEtà7ArtiCentAuro).
Giocata attorno al Centauro che uccide un cervo (198), la mostra è suddivisa in tre sezioni distinte, che approfondiscono, rispettivamente: il Van Biesbroeck simbolista; la visione panica della natura e il centauro nel Simbolismo tra Otto e Novecento; il centauro nei secoli.


Nella prima, pastelli e sanguigne a soggetto religioso (una Susanna al bagno, del 1915, un Sansone al supplizio datato 1920) e allegorico (le due variazioni sul tema della Bellezza che si fronteggiano ai lati della monumentale tela con Adamo ed Eva) tematizzano un’atmosfera culturale diffusa in cui – come chiarisce Luciano Rivi nel catalogo, edito da SAGEP – «sentimento religioso, pratica teosofica, spirito umanitario, miti e allegorie, indicavano in vario modo percorsi comunque opportuni» per oltrepassare i limiti dell’esistenza terrena.
Ispirato al D’Annunzio dell’Alcyone (1903), ed in particolar modo alla morte del cervo, il Centauro che uccide il cervo pare restituire, con particolare fedeltà, quattro versi del poeta abruzzese: «Erto alla presa della cornea chioma,/con le due zampe attanagliava il dorso/ cervino, superandolo del torso,/premendolo con tutta la sua soma».

Databile, in mancanza di testimonianze documentarie, alla prima fase postbellica (1918 ca.) , l’opera celebra il trionfo della bestialità, lo slancio totale del puro istinto: nel mito – ricorda Claudio Franzoni in catalogo – l’indole sconsiderata dei centauri viene fatta dipendere dalla mancanza delle Charites (le Grazie) durante l’unione di Ixion e Nephele che ha generato Kentauros. Nell’opera, un olio su faesite dalla verticalità accentuata, la figura rampante del centauro – che riempie il profilo rettangolare della pietra – così come gli inserti paesaggistici sullo sfondo, è resa per mezzo di un tratto pittorico agile, con poche concessioni allo sfumato e alla morbidezza cromatica, e testimonia – come osservato da Francesco Colnago nel 1920, ancora su «Emporium» – come Biesbroeck fosse «un artista squisitamente moderno, con tutta la sensibilità dei contemporanei, con una perfetta conoscenza di quei problemi di luce e di movimento che sono la più alta conquista della pittura odierna».
La seconda sezione amplia il raggio d’inchiesta sul motivo del centauro, e sulla sua fortuna iconografica tra XIX e XX secolo. Le acqueforti di Franz von Stick e Max Klinger – che con Arnold Böcklin avrebbe offerto il repertorio iconico al giovane Giorgio De Chirico -, le stampe di Franz Christophe su «Jugend», e, in territorio italiano, le prove pittoriche e scultoree di Ettore Tito, le cromie esuberanti di Mario de Maria (Il meriggio di un fauno) così come il gruppo di Ninfe e centauri del modenese Giuseppe Graziosi, testimoniano il successo di un modello, la compresenza di varianti a livello tematico e la loro circolazione nella stampa ad ampia tiratura: sempre in catalogo, Claudio Franzoni chiama in causa le illustrazioni satiriche a corredo della rivista inglese «Punch!» (21 aprile 1866), o la francese «Le Rire» (25 marzo 1899).

Allargando ancor di più lo spettro dell’inchiesta, la terza – e ultima – sezione offre allo spettatore un catalogo più ampio e dilatato nel tempo, che prende avvio dal ‘500 per arrivare al Chirone di Wainer Vaccari (2024), realizzato appositamente per la mostra. Dai lavori a bulino di Hans Sebald Beham (1542) sulle Fatiche di Ercole – una lotta che, nella convergenza di episodi, vede opposti i centauri non solo ad Ercole, ma anche ai Lapiti – all’Apollo e Marsia di Guercino (1619), le vicende dei centauri, all’epoca dei Lumi, (ri)prendono la direzione dell’ornamento: è il caso delle incisioni di Filippo Morghen e Nicola Billi (1757) pensate per un volume a stampa dedicato alle Pitture antiche d’Ercolano, certamente non l’unico esempio di impiego di un simile soggetto a fini decorativi – e Franzoni fa menzione del mosaico tardoantico del Museo del Bardo a Tunisia. Nell’Ottocento, il centauro diventa trait d’union tra mythos e logos – tornando a Nietzsche, tra i poli abitati da Apollo e da Dioniso – mentre, nel Novecento, Filippo Tommaso Marinetti lo rilegge in virtù dei più recenti sviluppi tecnologici. La componente equina del centauro, dunque, smette di funzionare in quanto natura, per essere considerata come protesi, come estensione tecnologica per mezzo della quale l’uomo moderno vince i limiti strutturali, biologici: mezzo privilegiato che consentiva all’uomo di coprire grandi distanze in un lasso di tempo ridotto, il cavallo, con l’avvento della civiltà industriale, viene sostituito dalla motocicletta. Nel 1935, il Dizionario moderno di Alfredo Panzini associa, alla voce “Centauro”, il significato di “corridore motociclista”: in mostra, una serie di manifesti pubblicitari – come quello eseguito da Corrado Mancioli per il Raduno dei centauri di Roma del ‘33, o come quello, più recente, di Gian Carlo Rossetti per MV Agusta (1955-1960) – si accompagna alla locandina di Wild Angels, film del 1966 di Roger Corman.
Ferine creature
Centauri, fauni, miti nell’opera di Jules van Biesbroeck e nell’immaginario moderno
a cura di Luciano Rivi
fino al 29 giugno 2025
La Galleria BPER Banca
via Scudari, 9 – Modena