I Masbedo arrivano nelle sale cinematografiche con Arsa, un film intenso e travolgente che racconta la storia di una giovane donna immersa nella solitudine delle terre aride di un’isola. Arsa, interpretata da Gala Zohar Martinucci, non è solo un titolo ma un’esperienza astratta, un nome evocativo che sfugge alle convenzioni linguistiche e alle logiche capitalistiche delle emozioni e dei sentimenti. Un nome su cui si ironizza, ma che rappresenta una combattente, quasi mitologica. Un nome che potrebbe suonare altisonante, ma che invece si rivela crudo e sincero come la realtà che racconta.


Con Arsa i Masbedo si immergono pienamente nel cinema narrativo da sala. «La nostra propensione per il cinema – spiegano gli artisti – è assolutamente nel DNA del nostro lavoro…un passo importante dal punto di vista del cinema nella sua accezione più chiara». Il film, che segna la seconda collaborazione con Giorgio Vasta, si sviluppa seguendo una sceneggiatura che, come ricordano i registi, si è sviluppata in corso d’opera, con continui adattamenti durante le riprese, in un dialogo spontaneo tra gli autori. Arsa potrebbe essere erroneamente letto come un film legato alla tradizione cinematografica novecentesca, con riferimenti ad Antonioni e Bertolucci, ma è in realtà un’opera che cerca nuove traiettorie.
«Non è un film – raccontano – che strizza l’occhio a quello che accade oggi, è un film che per farsi benvolere dobbiamo raccontarlo, che ha una profonda analisi di quanto un certo tipo di lutto possa essere costruttivo». Non si tratta di un lungometraggio che intende soddisfare una ricerca immediata di conforto o di risposte semplici, ma di un’opera che invita lo spettatore a confrontarsi con il dolore, con il lutto e con le sue implicazioni più complesse e profonde. Arsa è una donna libera dalle convenzioni sociali, che conosce solo ciò che le ha insegnato il padre – interpretato da Lino Musella – e quello che riesce a vedere attraverso le lenti del suo binocolo, osservando da lontano. Il padre, un artista costretto a diventare artigiano per sopravvivere, le trasmette la capacità di trasformare lo scarto in valore, in una potente metafora politica: «Arsa ha preso tantissimo da questo padre – spiegano i Masbedo – anche il suo lutto, è un lutto che non si tiene dentro, ma è come se fosse proprio introiettato, è parte di lei».

Un’eredità pesante, che rischia di diventare una gabbia: Arsa è forte, ma lo è per necessità, non per scelta. Il film affronta la questione dell’eredità non solo a livello individuale, ma anche generazionale: «di noi c’è tanto in questo film, noi stessi siamo genitori e qui tocchiamo alcune tra le tematiche per noi più strazianti: cosa trasmettere ai figli? Cosa lasciamo?». La pellicola indaga il tema del lutto vissuto dalla protagonista con grande forza e indipendenza, senza lasciarsi travolgere dalla rabbia, ma affidandosi a un processo di rigenerazione interiore. «Arsa è una ragazza molto forte, molto libera, che è in grado anche di avere dei momenti di grande empatia con persone più piccole… una sorta di Emily Dickinson senza telefonino, che non gliene frega niente di fare l’artista».
Il suo rapporto con l’istinto e la scoperta di sé è uno degli elementi più affascinanti del film. Distaccata da tutto ciò che caratterizza una vita solitamente considerata normale, Arsa agisce senza ego, senza voglia di mettersi in mostra. La creazione, anche artistica, si spoglia di ogni valore economico e sociale e resta una forza creatrice e di resistenza potentissima per la protagonista. La natura è parte integrante del film, con il canneto che funge da varco simbolico tra l’interiorità della protagonista e il mondo esterno.

«Inizialmente abbiamo voluto tenere il canneto come una soglia, come qualcosa che fosse al di qua e al di là. Al di qua c’è la propria interiorità, la propria vita privata che va difesa e al di là c’è la relazione, ci sono gli scambi sociali». Una dicotomia interessante, anche se a tratti il film sembra trattenere più di quanto conceda, lasciando lo spettatore in attesa di un’apertura. Gli autori, a riguardo, spiegano: «Arsa sa come maneggiare questo strumento con grande attenzione. Così, l’isola e la natura circostante diventano uno specchio concavo e convesso: riflettono le molteplici sfaccettature della protagonista». All’interno di questo paesaggio, approdano tre ragazzi in vacanza, simbolo di un’amicizia pura e profonda. «Gli sguardi tra gli amici in questo film sono iperpoetici e coinvolgenti, volevamo rappresentare dei giovani atipici, che si ascoltano e si accolgono», spiegano i Masbedo.
Questo sentimento di amicizia diventa una delle chiavi della pellicola, un legame che cerca di estendere l’affetto ad Arsa e a chiunque guardi il film. «La lotta è proprio quella di cercare di estendere il sentimento che questi ragazzi provano tra di loro: si ascoltano, e gli sguardi che si scambiano vogliono provocare l’estensione degli affetti». Tra di loro c’è Andrea (Jacopo Olmo Antinori), che porta con sé un lutto simile a quello della protagonista e resta catturato dalla giovane Arsa. Lontano dalle dinamiche classiche, il loro legame si nutre più di una curiosità inquieta che di una semplice attrazione fisica. Inizialmente distante, Arsa comincia a comprendere le sfumature di questo rapporto, lasciando intravedere verso la fine del film uno slancio di crescita personale.

I Masbedo costruiscono un film che sfugge alle categorizzazioni facili, non cerca di adattarsi alle mode o di compiacere il pubblico. «Per noi – raccontano gli artisti – qualsiasi bellezza nel fiorire del suo divenire è ovviamente perturbante, è un’esplosione». Arsa è un’opera che sfida lo spettatore, scegliendo una narrazione fatta di silenzi, paesaggi e simboli piuttosto che di spiegazioni dirette. È un film che non cerca di compiacere e questa è la sua forza, ma anche il suo rischio. I Masbedo difendono con fermezza l’indipendenza espressiva della loro opera, eppure sentono il bisogno di raccontarla, di accompagnarne la lettura, quasi a voler guidare chi guarda nel loro universo.