Il ruolo che Lucio Fontana ha svolto nella fondazione e nei successivi sviluppi dell’arte contemporanea nel mondo, è un dato storico rubricato da tempo e incontestabile. Ma il recente convegno Lucio Fontana. Origini e immaginario ha il grande merito di aver tracciato in diretta un profilo analitico molto dettagliato e parimenti avvincente del maestro italo-argentino.
A rendergli onore è intervenuto lo stesso ambasciatore argentino in Italia, Marcelo Martin Giusto, mentre hanno presentato l’incontro di studi Silvia Ardemagni, Presidente della Fondazione Lucio Fontana e Luca Massimo Barbero, nella doppia veste di Direttore dell’Istituto di Storia dell’Arte della Fondazione Cini, nonché curatore dei due cataloghi ragionati dell’opera dell’artista, dedicati alla produzione su carta e in ceramica. Si deve invece al compianto Enrico Crispolti, ripetutamente citato in molti interventi del convegno, il catalogo ragionato di sculture, dipinti e ambientazioni, pubblicato in una nuova edizione da Skira nel 2006.
Dopo aver passato in rassegna i primordi della sua formazione, una parte della quale svolta in Italia e in Argentina con il padre, lo scultore Luigi Fontana, Ester Coen ha esaminato il percorso accademico a Brera con Adolfo Wildt, condiviso con Fausto Melotti, citando alcune importanti commissioni monumentali del ventennio fascista, come il complesso della Vittoria del 1936. La studiosa si è poi concentrata sulle radici futuriste di Lucio Fontana che, soprattutto da Umberto Boccioni, ricavò il dinamismo plastico nel quale spazio, tempo e mondo fisico s’intrecciano in una sintesi a cui non fu certo estranea la conoscenza della relatività di Einstein.
Trattando dei contatti con Arturo Martini, Nico Stringa ha aperto l’esplorazione della scultura in ceramica, tema centrale nella poetica di Lucio Fontana, ripreso anche negli interventi di Valerio Terraroli e Luca Bochicchio. Doveroso e ineludibile il riferimento alle sperimentazioni tecniche ed espressive condotte ad Albissola Marina, in stretta collaborazione con Tullio d’Albisola, pseudonimo di Tullio Mazzotti, figlio del maestro vasaio Giuseppe, nella cui manifattura di famiglia Lucio Fontana svolse ricorrenti sessioni di lavoro fin dal 1936.
“Sprofonda l’antro quando gira il tornio,/par che la ruota penetri alle viscere/d’una cava morbida d’argilla/in un vortice che trascina e che solleva!” Questo è l’incipit del testo poetico d’impronta futurista di Tullio d’Albisola L’antro del vasaio, cui fa da pendant il correlato disegno di Fontana, una composizione spiraliforme di cerchi concentrici intorno ad un’entità informe e in divenire, entrambi pubblicati in Racconto da Vanni Scheiwiller nel 1943. La loro associazione simbiotica è il miglior viatico per comprendere che proprio la ceramica costituisce la matrice più esemplare dell’intero processo creativo fontaniano. Infatti, nella sua scaturigine terrestre e insieme espressione tangibile delle leggi universali della fisica, vista la prevalente valenza cinetica della sua manipolazione, la ceramica offre la propria natura fluida per una oscillazione sistemica tra gesto, materia e forma, tra figurazione ed astrazione, fino alla sintesi suprema dello spazialismo.
“Nell’arte spazialista finiremo”, scriveva Lucio Fontana in alcuni appunti del 1948, in risposta alla domanda retorica lanciata da un polemico Carlo Carrà “A furia di purezza, dove andremo a finire?”. Lo ha ricordato Francesco Tedeschi nel suo intervento centrato sui prodromi astratti dello spazialismo, che vedono Lucio Fontana inserito nel gruppo della galleria milanese Il Milione fin dalla prima mostra del 1930, considerato uno dei capostipiti della scultura astratta, non solo italiana, visto l’interesse suscitato dalle sue opere pubblicate sulla rivista parigina “Abstraction-Création: art non figuratif”, come pure sulla rivista tedesca “Zero”, stampata a Düsseldorf. Il passaggio successivo è allo spazialismo, la cui poetica è prima dichiarata nel Manifiesto blanco del 1946, che Fontana porta con sé al suo ritorno dall’Argentina in Italia, poi richiamata e ampliata nelle redazioni successive del Movimento spaziale del 1947 e 1948.
In quell’anno presentò alla prima Biennale del dopoguerra, come ricordato nell’intervento di Sileno Salvagnini, l’opera in bronzo Scultura spaziale, concepita come una configurazione di grumi materici informi, però disposti ad anello intorno ad uno spazio vuoto, vero nucleo catalizzatore dell’opera. Un vuoto perciò denso di rilevanza estetica e semantica, che non a caso susciterà notevole interesse sulla scena artistica giapponese, in virtù di risonanze ancora in essere della cultura taoista. Nel vuoto oscuro dell’ombra precipitano i colpi di punteruolo dei Concetti spaziali, nel vuoto affondano i tagli delle Attese. Nel vuoto oscuro dello spazio sono immersi i corpi materici fluorescenti di Ambiente a luce nera del 1949, che negli anni ’60 si trasformeranno nelle volute dei filamenti al neon, apparizioni luminose di pura energia avviluppate allo spazio architettonico, nel quale mortificano a puro sfondo la finitezza della geometria euclidea.
Per arrivare ai Quanta, costellazioni di parti-particelle, assemblate senza strutture predeterminate di composizione. Il termine è chiaramente desunto dalla meccanica quantistica, alla quale Lucio Fontana si richiama ancora una volta per fascinazione immaginativa verso la scienza e verso le sue immense scoperte delle entità di energia senza materia che vengono rilevate nel cosmo. Ai vuoti che s’interpongono nella distribuzione imprevedibile delle galassie, all’espansione accelerata dell’universo e al vuoto della sua genesi primordiale: a tutto ciò si ispirava poeticamente l’artista-filosofo dei Concetti spaziali? Del resto, che i tagli delle Attese equivalgano al principiante e silente annunciarsi visivo di un Inizio, lo ha di recente richiamato Massimo Cacciari nel suo La passione secondo Maria, associando il gesto-simbolo di Lucio Fontana alla fenditura della veste sulla quale si sofferma, ad indicarla e proteggerla, la mano destra de La Madonna del Parto di Piero della Francesca.