Nel 2021, 26 opere del Regno del Dahomey, secolare regno africano nell’attuale Benin, sono state restituite dal Musée du Quai Branly di Parigi. È l’inizio della storia di Dahomey, il nuovo documentario di Mati Diop vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino che arriverà nelle sale italiane il 7 novembre.
La regista franco-senegalese non racconta la storia di grandi potenze coloniali che restituiscono delle opere, ma del saccheggio brutale di un intero continente, ribaltando la prospettiva paternalista e post-coloniale delle restituzioni. «Si sente sempre parlare di restituzione da parte di chi ne compie il gesto. Ma questa non è la storia della Francia, di Macron, di una vecchia potenza coloniale che restituisce: è prima di tutto la storia di un continente che è stato saccheggiato e che sta reclamando il suo patrimonio dagli anni ’60».
Con uno sguardo spietato e poetico, Diop racconta l’odissea delle 26 opere non solo dal punto di vista degli umiliati e offesi, ma dando voce alle opere stesse. Ci parlano con voce lontana e distorta, con rabbia e chiedendo giustizia: «Siamo in migliaia in questa notte, estirpati, strappati via. Le spoglie di una razzia sconfinata. Cosa mi attende altrove?».
Diop stravolge le regole del documentario e segue le vicende della storia attraverso chi le vive: i giovani del Bénin che si riappropriano della propria cultura, la storia secolare di popoli oppressi, le opere trafugate come bottino di guerra. 26 opere restituite sono «una nullità su 7000, un’umiliazione» a fronte della violenza e della terra devastata lasciata dal colonialismo francese. Diop porta al cinema una storia che mischia eredità e presente, interrogandoci sul futuro, ponendo le domande giuste: quelle scomode.
In “Dahomey” una storia di colonialismo
Anche l’Italia ha avuto un passato coloniale, non assimilabile unicamente al Fascismo e ancora taciuto dal dibattito sociale e politico. Almeno mezzo milione di morti e danni culturali ed economici incalcolabili: e intanto le nostre piazze sono ancora intitolate al macellaio del Fezzan Rodolfo Graziani, nonché alla strage di Amba Aradam, a Tripoli o Addis Abeba piegate dal conquistatore italiano. La guerriglia odonomastica opera ancora lontana dai riflettori grazie a collettivi come Wu Ming e ad altre realtà: eppure di colonialismo a volte se ne parla quasi senza volerlo, quando si parla di restituzioni.
Tema definito scottante solo per chi ha la coda di paglia, ovvero per le potenze coloniali, è la questione esistenziale della Nuova Museologia. Ancora tabù in Italia, dove pochi e silenziosi passi sono stati fatti, in altri paesi europei è un dibattito più acceso e tocca diversi aspetti della vita civile e culturale.
Photo Michel Euler.
La Francia ha cercato da tempo di affrontare la questione, per migliorare la sua immagine nelle ex-colonie. Nel 2017 Macron è a Ouagadougou, Burkina Faso: è dal 1986 che un Presidente della Repubblica francese non visita il paese. In un discorso poi ripreso più volte, annuncia la fine della Françafrique: sul tema tornerà, rimarcando la necessità di restituire le opere trafugate ai paesi invasi dalla Francia coloniale.
Dove l’intento strategico era ricostruire l’immagine francese nelle ex-colonie, Macron e i successori hanno avuto poco successo, lasciando un vuoto subito conquistato dalla Russia e dalla Cina. Intanto, la politica di restituzione ha fatto timidi progressi, nonostante le critiche da entrambi i lati del Parlamento. La destra attacca per statuto, con rivendicazioni reazionarie, ma il dibattito trova oppositori e critici anche a sinistra: le restituzioni sono infatti spesso esigue, lente o mosse da interessi diplomatici e di soft-power. Manca, a detta di Diop, l’interesse a decostruire l’immaginario coloniale francese, dando voce a chi ha subito il saccheggio.
Agire sistematicamente, rinunciare alla restituzione, valutare caso per caso: il dibattito è innescato, la lotta è ancora lunga. Eppure quella che ci porta al cinema Mati Diop ha tutta l’aria di essere una vittoria promessa.
Al cinema dal 7 novembre, distribuito in Italia da Lucky Red e Mubi.