Non è che con la cultura non si mangia, è che la cultura costa. Sia in termini economici per sostenerla, che in termini di impegno, quando ci si mette in gioco, condividendone le sfide, facendo proprio quello sguardo che va oltre i confini certi per intercettare il futuro. Certo, la cultura può costare anche poco: un giovane artista si può acquisire per qualche migliaio di euro e poi forse crescerà di valore. Ma questa è un’altra cosa, è mercato.
Tassello prezioso del sistema culturale ma, appunto, tassello di qualcosa di più complesso. Che la cultura costi lo sanno bene le Istituzioni – non solo in Italia – che un po’ ovunque ce la fanno a malapena a sostenerla e orientandosi per lo più sul patrimonio storico. E lo sanno bene i privati, chiamati sempre più spesso a un ruolo di supplenza. Non con “finanziamenti a pioggia” di antica e superata memoria, ma scegliendo di saldarsi a certe esperienze o sposando immagini vincenti, capaci di parlare al mondo. L’Italia abbonda di queste ultime occasioni. I nostri ineguagliabili tesori culturali fanno gola a grandi brand (soprattutto di moda) pronti a finanziarne il restauro o altro. Recentemente Bulgari ha sostenuto il recupero delle scuderie di Villa Albani a Roma che ospitano alcuni pezzi della celebre collezione dei Marmi Torlonia. Anni fa Fendi aveva finanziato il restauro dell’iconica Fontana di Trevi mentre Tod’s aveva sborsato 25 milioni di euro per il Colosseo, garantendosi l’esclusiva dell’immagine per 15 anni.
Diverso è quando un’azienda investe su un progetto culturale che non ha una fortissima visibilità, ma del quale condivide percorso e obiettivi. Altra cosa ancora è quando un’azienda dà vita a un proprio progetto culturale di pubblica fruizione. Questa, per esempio, è la scelta di Maramotti, famiglia proprietaria del gruppo Max Mara e di molte altre cose. Da oltre 15 anni, i primi stabilimenti Max Mara a Reggio Emilia sono stati trasformati nella sede della Collezione Maramotti, voluta dal patriarca Achille e continuata con passione dai tre figli che l’hanno aperta al pubblico e che continuano a incrementarla acquisendo le opere commissionate per le mostre temporanee. Esempio virtuoso di moderno mecenatismo.
Più innovativa la scelta della marchigiana Elica, azienda leader per le cappe aspiranti, che fa entrare direttamente in fabbrica gli artisti con le loro opere, stimolando i dipendenti a confrontarsi con la complessità dell’arte contemporanea. Sul versante del finanziamento attivo per progetti al di fuori dell’azienda, troviamo Terna, eccellenza nelle reti di trasmissione e per la transizione energetica, che ha dato vita al Premio Driving energy, rivolto gratuitamente a fotografi attivi in Italia che culmina in una mostra nel romano Palazzo delle Esposizioni.
Una scelta di campo, quella della fotografia, che avvicina Terna a Ghella, società per la realizzazione di elementi strutturali per metropolitane, porti e altre infrastrutture che seleziona un numero di fotografi professionisti invitandoli a confrontarsi con i grandi cantieri aperti nel mondo per poi convergere in una mostra finale al MAXXI. La fotografia è uno dei linguaggi più vivaci della contemporaneità e dare l’opportunità a giovani e meno giovani di esprimersi con questo mezzo è un modo efficace per essere presenti nel sistema dell’arte favorendo la crescita professionale dei fotografi. In passato Terna aveva proposto un importante Progetto per la Cultura di taglio internazionale.
Lo stesso ha fatto Enel in collaborazione con il MACRO di Roma, mentre oggi tende per lo più a illuminare grandi siti artistici o a sostenere il finanziamento di importanti progetti, come è stato quest’anno con Pesaro 2024 Capitale della Cultura. E poi c’è una banca, Banca Ifis, che per volontà del suo amministratore delegato Ernesto Fustenberg Fassio è entrata nel vivo della scena artistica contemporanea. Molti i progetti in agenda di Ifis art tra i quali: la trasformazione del parco della villa di famiglia a nord di Mestre in un museo all’aperto, il sostegno del public program dell’attuale Padiglione Italia alla Biennale di Venezia, la sponsorizzazione della fiera Roma Arte in Nuvola, di svariate mostre e del restauro dell’opera di Banksy The migrant child.
Non si tratta solo di generosità, ma di buone pratiche che nascono da un autentico interesse per quella visione sghemba della realtà propria degli artisti. E da qui, da questo confronto tra percorsi, origini e sensibilità diverse nasce qualcosa – uno stimolo, una visione eccentrica – che può giovare anche all’azienda. È infatti comprovato da numerose ricerche che l’esposizione all’arte favorisce un migliore rendimento produttivo e che la comprensio- ne della stessa arte, soprattutto contemporanea non sempre di facile approccio, stimoli l’esercizio mentale.
Che l’arte sia, insomma, una bella sfida per affinare capacità intellettive e competenze soprattutto tra i manager, ma non solo. Oltre la già citata Elica, ne sanno qualcosa i tanti studi legali – LCA e nctm di Milano, lo studio notarile Giuliani a Roma – nei cui ambienti le persone lavorano a contatto con opere contemporanee. Detto questo, guai a ridurre l’arte a una sorta di palestra per lavorare meglio, aumentando la produzione. Perché l’arte elevi la qualità della vita, anche nelle realtà di lavoro, deve rimanere libera, svincolata da obiettivi prefissati, attivando prima di tutto una capacità dello sguardo. E rimanendo un po’ “intangibile”, come dice Marina Abramović, che di arte, vita e visione ne sa parecchio.