Quale potrebbe essere l’anello di congiunzione tra arte e impresa? La ricerca alternativa del profitto? Il desiderio di possedere opere che altrimenti andrebbero in mano ad altri? Alberto Peruzzo demolisce ogni strada che mira a una visione egoistica improntata al guadagno e, attraverso un racconto personale, definisce il fil rouge che dal suo punto di vista dovrebbe legare l’arte all’impresa. Imprenditore e collezionista, ha fondato nel 2015 la Fondazione Alberto Peruzzo a Padova, impegnata nella promozione dell’arte contemporanea e nella conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale del territorio, attraverso una serie di iniziative quali mostre, progetti editoriali e di natura sociale.
Inoltre, gli spazi della Fondazione ospitano una collezione permanente che vanta più di duecento opere di artisti come Sironi, De Pisis, Picasso, Dubuffet e Chagall, per citarne alcuni, esposti ciclicamente nell’ex Chiesa di Sant’Agnese, struttura del XII secolo situata nel centro storico di Padova e restaurata dalla Fondazione nell’arco di 7 anni fino al 2023. I restauri, le sinergie culturali sviluppate in accordo con le realtà locali e le mostre tematiche nascono e si realizzano secondo l’idea per cui il legame tra arte e impresa rappresenta un veicolo per conferire spazio all’arte, accrescere stimoli culturali e di riflessione personale. Un’intesa importante che può arricchire il percorso umano e lavorativo di coloro che sentono la curiosità di avvicinarsi all’arte per conoscerla soprattutto attraverso il proprio filtro emotivo.
In quanto appassionato d’arte, per anni si è dedicato a progetti di valorizzazione del territorio padovano e veneziano e nel 2015 ha dato vita alla Fondazione Alberto Peruzzo. Come si è avvicinato all’arte contemporanea e qual è la genesi della Fondazione?
Ero un grande appassionato da giovane e piano piano ho compreso che mi appagava collezionare, ma soprattutto con il tempo ho capito che avevo inaugurato un percorso di crescita personale. Inizialmente mi piaceva principalmente l’arte rinascimentale, poi invece mi sono avvicinato all’arte moderna e in seguito a quella contemporanea. Lo spartiacque è stato un viaggio a New York nel ‘95 in cui ho acquistato un Andy Warhol, cosa che non avrei mai immaginato di fare prima. Da allora è stato un crescendo, si è trattato di un percorso importante soprattutto dal punto di vista umano. La Fondazione è stata pensata come un luogo che raccogliesse le opere e le mettesse a disposizione del pubblico. Dopo il restauro della chiesa di Sant’Agnese, è diventata uno spazio fisico e metafisico in cui io ritrovo me stesso. Questa sensazione, che si crea quando si sta a contatto con le opere, spesso è condivisa da visitatori: è un sentire molto intimo che può essere vissuto da alcuni, non necessariamente da tutti.
La Fondazione realizza progetti sia mirati a preservare il patrimonio culturale sia nell’ambito dell’arte
contemporanea. Quale pensa che sia il modo migliore per far dialogare i due periodi storici in termini
di iniziative culturali? E quale approccio individua come vincente per introdurre l’arte contemporanea ai non addetti ai lavori?
Molti amano la pittura classica probabilmente perché è di comprensione più immediata, in Italia ne siamo intrisi, ma è importante per me guardare alla storia dell’uomo, che nei secoli ha attraversato molti cambiamenti, ha affrontato guerre. L’arte è stata a lungo appannaggio di pochi, poi è diventata più trasversale e democratica. Ciò lascia intuire come la storia abbia creato dei ponti che narrano l’evoluzione dell’uomo. Oggi l’arte, specie quella contemporanea dei grandi nomi, ha un costo elevato non affrontabile dalla maggioranza delle persone, e si perde spesso il significato che l’opera vuole trasmettere, in quanto gli interessi in gioco sono molteplici. Ma per me ciò non deve rimanere un investimento fine a se stesso, non mi piace l’idea di comprare un’opera per accrescere il suo valore economico e guadagnarci: il collezionista non è un mercante. I miei obiettivi sono altri, come per esempio dare valore all’investimento culturale e in questo l’imprenditore ha un ruolo molto importante. Ritengo anche sia necessario superare la visione di arte-impresa concepita come moda o l’idea di concentrare gli sforzi solo su comunicazione e marketing, perché collezionare è qualcosa di molto più intimo e sentimentale e per me è cruciale che venga percepito come tale. Il mio modo di collezionare è stato un percorso di maturazione e l’arte mi ha dato moltissimo a livello personale e lavorativo. Ho comprato l’arte perché la amo e questo mi ha accresciuto come uomo e quindi anche come imprenditore.
Lei ha iniziato a collezionare opere d’arte che vanno da Chagall a De Pisis a Murakami e che attualmente fanno parte della collezione della Fondazione, si potrebbe quindi parlare di collezionismo attivo. Come considera il ruolo del collezionista?
Il collezionista deve essere un sognatore capace di cogliere nelle opere ciò che l’artista trasmette. Per esempio, ciò che Picasso ha rappresentato con Guernica è un dramma umano rappresentato con il suo sentire, con la sua pancia, con qualcosa che è solo suo. Per me collezionare significa vedere l’amore nell’opera d’arte e creare un link tra gli occhi dell’osservatore e quelli dell’artista, cogliere il sentimento che in quel momento l’artista intende trasmettere. Tutto ciò si discosta dall’idea di ostentazione dell’arte con il fine di mostrare le ricchezze che si possiedono.
Il restauro della Chiesa di Sant’Agnese è stato pensato anche per rendere l’ex Chiesa, ormai nuova sede
principale della Fondazione, un punto di riferimento culturale per la città. A distanza di un anno dal restauro come valuta l’impatto sociale che ha avuto?
Per chi ha la sensibilità e il piacere di conoscere l’arte contemporanea ha rappresentato un valore aggiunto. Ho ricevuto complimenti inaspettati. Tra coloro che si interessano meno all’arte contemporanea c’è stato invece più scetticismo. In passato l’ex Chiesa era un’officina meccanica e ciò non ha mai sollevato contrasti, mentre il fatto che fosse diventato uno spazio per l’arte contemporanea per alcuni è stato motivo di polemiche. Posso dire che il restauro è stato un’operazione che rappresenta lo specchio dei nostri tempi, nel senso che se si ha voglia di crescere con curiosità, allora si dà del valore ad un’operazione di questo tipo, mentre chi non ha questa attitudine tiene in minor considerazione il progetto, ma ciò non mi scoraggia: è stato comunque un risultato personale di cui sono molto orgoglioso.
La Fondazione si impegna anche nella promozione di artisti contemporanei. Quali sono le qualità artistiche che apprezza maggiormente in un’opera contemporanea? Se potesse dare un consiglio agli artisti emergenti per orientare la propria bussola in un mondo in cui è difficile affermarsi, cos’è l’arte contemporanea? Cosa gli direbbe?
Parlare del contemporaneo. Oggi ci sono due guerre, ci sono due mondi in contrapposizione come ai tempi della guerra fredda. Ci sono otto miliardi di persone al mondo di cui solo due miliardi vivono dignitosamente. Per me l’arte contemporanea deve parlare di quello che viviamo. Poco importa se è arte
digitale o pittura, l’importante è raccontare la propria contemporaneità. Quando per esempio abbiamo organizzato la mostra sui sogni dei Fuse, Onirica, inizialmente ero scettico, ma poi ha avuto un successo enorme, secondo me dovuto al fatto che si è proposta un’esplorazione dell’ignoto attraverso un’indagine
sul meccanismo di funzionamento della nostra mente. Il fatto che un artista riesca a far riflettere lo spettatore, a scuoterlo, a raggiungere in modo empatico le corde dell’animo credo sia fondamentale. In generale guardo con grande curiosità tutto ciò che riguarda l’animo umano, non ho delle preferenze tra artisti, ma apprezzo chi mi permette di spostare il mio orizzonte in un modo in cui da solo non sarei in grado di fare.
Che prospettive intravede per il futuro tra arte e privati. Quale può essere l’apporto dei privati all’arte contemporanea e quali nuove prospettive si stanno delineando nell’ultimo decennio?
Il ruolo dei galleristi è stato fondamentale sino a qualche anno fa. Il concetto di arte come mera proprietà di un privato è a mio avviso destinato ad affievolirsi sul lungo periodo, a vantaggio di una maggiore condivisione dell’opera per un pubblico più allargato. Quello che cerco di fare anche io è creare una serie
di iniziative organizzate intorno all’impresa o al privato mosse dalla volontà di permettere alle opere di crescere insieme a coloro che le apprezzano. Per me sono queste le coordinate su cui dovrebbe muoversi il privato, così come ritengo sia importante aprirsi tra collezionisti in modo sinceramente
culturale. Spesso mi imbatto in declinazioni di impresa prive di uno scopo culturale, ma l’arte ha una potenza molto più grande del mero guadagno. Quando invito qualcuno a collezionare gli suggerisco sempre di non investire per guadagnarci o per un ritorno di immagine, ma per l’idea di crescere e far
crescere anche altri artisti e, soprattutto, con il fine di generare cultura, arte e condivisione. Bisogna avvicinarsi con umiltà e curiosità, il pregiudizio deve essere bandito.