Quali musei per il domani?

Massimo Osanna, Direttore generale Musei del Ministero della Cultura, traccia il percorso compiuto fino ad oggi per adeguare e valorizzare il nostro patrimonio culturale, proiettando aspettative e urgenze nel futuro

Più aperti, accessibili, tecnologici: i musei di oggi sono creature molto più complesse rispetto a come si presentavano in passato. In materia di beni culturali, gli aspetti normativi che si sono susseguiti in questi decenni hanno senz’altro contribuito a consolidare l’immagine e la funzione dei luoghi dell’arte in un contesto anche internazionale. Ma in che direzione stiamo andando? Cosa si può e si deve ancora fare per valorizzare al meglio il nostro patrimonio storico-artistico? Massimo Osanna, Direttore generale Musei del Ministero della Cultura, fa luce sui principali passi già compiuti, mostrandone gli effetti e chiarendo cosa significhi per lui condurre l’arte del nostro paese in una dimensione di futuro in cui i privati giocano un ruolo fondamentale nel sostegno alle istituzioni.

In che direzione ci stiamo proiettando per valorizzare il patrimonio italiano anche in un contesto internazionale?

Il potenziamento degli aspetti manageriali, in particolare con la designazione di direttori museali distinti dai soprintendenti territoriali, e la precisazione giuridica dell’entità “museo” sta consentendo una maggiore proiezione sul piano internazionale dei luoghi della cultura italiani, in termini di relazioni tra istituzioni, prestiti di opere d’arte, co-organizzazione di mostre, scambi di professionalità e di esperienze. Le iniziative di cooperazione sono sempre più frequenti, promosse sia a livello internazionale che transnazionale.

Tra tutte, mi fa piacere citarne una in particolare, seguita proprio dalla Direzione generale Musei da me guidata: Il racconto della bellezza, un programma di mostre negli Istituti italiani di cultura all’estero, organizzato di concerto tra il Ministero della Cultura e quello per gli Affari esteri e la Cooperazione internazionale, allestite con beni culturali provenienti dai depositi dei musei statali. Il progetto sta portando il nostro patrimonio culturale nel mondo, con esposizioni itineranti che consentono un accesso libero a tutti i cittadini a reperti archeologici normalmente esclusi dalla fruizione pubblica, promuovendo allo stesso tempo l’immagine dell’Italia a livello globale.

In più di un’occasione ha ribadito l’importanza della riforma Franceschini sui musei autonomi, definendola rivoluzionaria. Quali sono stati i suoi effetti a dieci anni di distanza e che cosa ha rappresentato?

La disciplina dei musei in Italia è stata riconsiderata in toto nel 2014, con l’obiettivo di adeguare l’Italia agli standard internazionali in materia di musei e di migliorare la promozione dello sviluppo della cultura, compito costituzionalmente attribuito alla Repubblica. A distanza di dieci anni, quella riforma appare essere stata del tutto adeguata alle finalità che si era prefissa: non è un caso che, a fronte degli iniziali venti musei autonomi si sia arrivati a riconoscerne di recente ben sessanta, a riprova che quella scelta è stata ritenuta oggettivamente vincente. I musei statali, da “oggetti”, sono divenuti finalmente “soggetti”, ai quali la normativa ha riconosciuto la natura di istituzioni con i caratteri propri delle organizzazioni, dotati di uno statuto e di una propria missione, incaricati di tutelare e valorizzare le collezioni in loro consegna, ma anche di promuoverne la fruizione, la conoscenza, lo studio, tramite convenzioni con altri enti pubblici e istituti scolastici e accademici.

Grazie all’autonomia gestionale e contabile-finanziaria, inoltre, i luoghi della cultura sono in grado di autofinanziarsi, tramite azioni di marketing e fund-raising, altrimenti non praticabili in un regime di contabilità pubblica ordinaria. Ciò non significa che non vi sia un sostentamento economico da parte dello Stato ma che, oltre a questo, sia possibile prevedere ulteriori forme di reperimento di risorse economiche, che consentono agli istituti di mettere in atto i propri programmi culturali. Accanto a questi aspetti più manageriali, poi, c’è da tenere in considerazione tutto l’ambito delle relazioni con gli altri luoghi della cultura, sia a livello nazionale che internazionale, le quali sono di certo agevolate da una migliore identificazione dei musei come istituzioni a sé stanti.

Lo stesso dicasi per le attività di promozione, strettamente connesse al carattere precipuo di ogni realtà, volte a far conoscere il proprio patrimonio al numero più ampio possibile di visitatori. In sostanza, la concezione del museo statale in Italia ha subito una trasformazione radicale: da semplice ufficio, privo di un suo carattere, di un’unità organizzativa dedicata a un ambito territoriale a volte molto ampio (le Soprintendenze di vecchio stampo, suddivise per materie, cioè archeologia, belle arti e monumenti), si è passati a una vera e propria empowering institution, inserita a pieno titolo nella comunità e nel territorio in cui il museo vive e si sviluppa. Questo approccio, ovvero una visione che vede nel museo un fulcro di civiltà nella società, è pienamente in linea con la disciplina internazionale sui musei, condivisa dalla comunità scientifica e, ormai, anche da quella politica: si pensi, ad esempio, alla Raccomandazione UNESCO sui musei del 2015 e alle più recenti definizioni di museo dell’ICOM, del 2007 e 2022.

Che peso hanno i privati in questo settore? Se anche i musei si trasformano in piccole aziende, qual è il ruolo dello Stato?

Che la partecipazione dei privati cittadini alla gestione dei beni comuni sia un asse fondamentale e irrinunciabile delle moderne politiche pubbliche è stato affermato in maniera inequivoca con la riforma del Titolo V della Costituzione. La riforma costituzionale del 2001 ha introdotto, infatti, il principio della sussidiarietà “orizzontale” all’art. 118, affermando che lo Stato e gli altri enti pubblici territoriali sono tenuti a favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale. Tra queste vanno di certo annoverate le azioni inerenti il patrimonio culturale, pubblico per sua natura congenita in ragione dell’importanza che riveste nel suo valore di testimonianza della memoria collettiva e civica, a prescindere dallo specifico regime proprietario degli oggetti.

Non è un caso che il Codice dei beni culturali preveda in più punti, accanto a quello dei soggetti pubblici, il ruolo attivo dei privati, chiamati, per un verso, a garantire la conservazione dei beni di loro proprietà, e per l’altro, a promuovere iniziative di valorizzazione del patrimonio culturale, con il favore e il sostegno della Repubblica, intese quali attività socialmente utili, di cui è riconosciuta la finalità di solidarietà sociale. Il privato, poi, può essere affidatario della gestione dei luoghi della cultura (la cosiddetta “gestione indiretta”), con particolare riferimento ai servizi aggiuntivi, tramite rapporti di concessione, di appalto, ma anche di sponsorizzazione tecnica e di partenariato speciale.

Non mancano, poi, forme diverse di mecenatismo: sempre più diffuse sono le sponsorizzazioni economiche erogate dai grandi brand della moda e le relazioni con le fondazioni bancarie. Tale approccio è stato ulteriormente rafforzato da più recenti interventi legislativi: è il caso del nuovo Codice dei contratti pubblici, emanato a marzo 2023, in cui per la prima volta si fa riferimento alla promozione, da parte della Pubblica Amministrazione, di modelli organizzativi di amministrazione condivisa in relazione ad attività a spiccata valenza sociale, sulla base dei principi di sussidiarietà orizzontale e di solidarietà sociale, che conducono a un sempre più fitto coinvolgimento degli enti del Terzo settore, la cui disciplina è stata codificata nel 2017.

L’ulteriore semplificazione delle procedure per l’instaurazione dei rapporti di partenariato speciale pubblico-privato nei beni culturali, la vastità del novero delle attività realizzabili nel suo contesto (recupero, restauro, manutenzione programmata, gestione, apertura alla pubblica fruizione e valorizzazione) e l’applicabilità di essi non più soltanto agli immobili, ma potenzialmente a tutte le forme di patrimonio, materiale e immateriale, conferiscono una valenza crescente al ruolo del privato sociale e della responsabilità sociale d’impresa, anche nella gestione dei musei e dei luoghi della cultura pubblici, in particolare di quelli statali.

Ciò, ça va sans dire, non implica affatto una sostituzione dei soggetti privati a quelli pubblici nella gestione della cosa pubblica, tanto meno in quella dei beni culturali e dei musei: si tratta, invece, di un supporto alle istituzioni nell’espletamento dei compiti che sono loro propri, secondo un modello virtuoso di condivisione (tramite competenze, risorse, esperienze), ormai sperimentato da tempo, sin dall’introduzione della disciplina sui servizi aggiuntivi degli anni Novanta. È fondamentale che la qualità dell’intervento privato sia di alto profilo e questo è possibile solo con la qualità dell’intervento pubblico che ad esso fa da presupposto necessario.

Nel saggio Futuro del classico, Salvatore Settis difende la dinamicità del concetto di “classico”, necessaria per una visione chiara del passato e del presente e per una riformulazione più ibrida e aperta del futuro. In un paese come il nostro, in cui l’arte antica ha un peso così rilevante, qual è oggi il modo migliore per far convivere storia e contemporaneità?

Secondo Benedetto Croce la storia è sempre storia contemporanea, essendo la narrazione del passato fortemente connessa al presente in cui essa si svolge, e da questo condizionata. C’è da chiedersi se esista veramente una percepibile linea di distinzione tra passato e presente: la storiografia ci ha insegnato che la presa di consapevolezza di un prima e un dopo è un fatto della coscienza, se vogliamo di valenza psicologica, più che veramente storico. Se nel vivere comune è realmente presente una dicotomia tra storia e contemporaneità, questa può di certo essere superata con un’educazione al patrimonio culturale volta a veicolare la cognizione che l’umanità si muove in un flusso ininterrotto di tempo e di eventi in cui i bisogni, le aspirazioni, i sentimenti e le emozioni non mutano poi così tanto tra un’epoca e l’altra.

La differenza sta nell’espressione e nell’esternazione che di questi si fa, differenza che va sempre tutelata nella sua specificità. Pensiamo al caso di Pompei, che ho avuto la fortuna di dirigere per molti anni, una città di 2000 anni fa immortalata dall’eruzione del Vesuvio nella sua quotidianità, che ci ha restituito il racconto di tante vite caratterizzate da amori, dissapori, problemi economici, mestieri, liste della spesa, giochi, propagande elettorali, in tutto e per tutto simili a quelle odierne. Non a caso ho intitolato il mio ultimo libro Pompei ieri e oggi, proprio a sottolineare che l’antica città vesuviana, con le sue migliaia di storie e di persone, è sempre contemporanea.

In quest’ottica, da un lato non bisogna mitizzare o sacralizzare il passato, nella consapevolezza che si tratti di un prodotto della storia umana; dall’altro, non va demonizzato il presente, né tanto meno temuto il futuro. L’arte antica va tutelata nella sua fragilità materiale, ma ciò non significa che debba essere sottratta alla società, con la quale deve convivere e per la quale deve sussistere. Parimenti, le creazioni contemporanee sono chiamate, soprattutto in un Paese come l’Italia in cui i centri storici sono fortemente legati al passato urbanistico, a dialogare in maniera intelligente con i propri presupposti: l’arte contemporanea nei contesti archeologici, per esempio, se concepita come forma di valorizzazione reciproca può rappresentare un valore aggiunto.

Negli ultimi vent’anni le nuove tecnologie sono state determinanti per la riorganizzazione e la digitalizzazione del nostro patrimonio. Quali benefici si sono avuti nei contesti museali e come si potrebbero sfruttare gli strumenti che oggi abbiamo a disposizione?

Le nuove tecnologie rappresentano uno strumento imprescindibile, sia per lo studio, la ricerca e la catalogazione dei beni culturali, che per la loro conservazione e valorizzazione. Si pensi, banalmente, alla messa a sistema che esse possono offrire dei dati desunti dalle ricerche diagnostiche e storico-archeologiche, nonché dal monitoraggio delle condizioni conservative di oggetti e contesti. Accanto a questi usi più tecnico-scientifici, negli ultimi anni, e con una particolare accelerazione dopo la pandemia che ci ha obbligato al distacco forzato dalle cose, si sono venuti affermando sempre più utilizzi volti alla promozione, alla divulgazione, all’educazione.

In sintesi, si può affermare che le tecnologie digitali e multimediali sono un importante strumento di accessibilità culturale e museale, da intendersi sia come superamento delle barriere fisiche, sia come di quelle cognitivo-sensoriali. A titolo di esempio, si possono ricordare le ricostruzioni in 3d, le proiezioni di realtà virtuale e realtà aumentata, l’impiego della tecnologia beacon e dei QRcode, le esperienze immersive. È un fatto che, allo stato attuale, ognuno di noi sia munito di uno smartphone, fonte costante di informazioni e connessioni, ed è giocoforza che anche i servizi museali passino attraverso di questo.

Proprio la scorsa estate, con la Direzione generale Musei abbiamo rilasciato online la piattaforma Museitaliani, con la relativa app per dispositivi mobili, che consente di accedere alle schede relative ai musei statali italiani, conoscerne orari di apertura, dati logistici, percorsi di visita, eventi, etc., e, soprattutto, che consente di acquistarne il biglietto online, in maniera semplice e veloce. Per la prima volta, è stato introdotto un sistema di e-ticketing su base nazionale, con il doppio vantaggio dell’immediatezza del servizio per i cittadini, che potranno risparmiarsi file e uso di contanti, e della gestione in autonomia dei servizi di bigliettazione per i luoghi della cultura.

Grazie all’ideazione di campagne e iniziative specifiche ma anche attraverso una comunicazione più accessibile, negli ultimi anni tanti giovani si sono avvicinati ai musei ma troppo spesso nelle scuole e nelle università le materie umanistiche, e in particolare la storia dell’arte, sono viste ancora come poco utili e di nicchia. Quali sono i gap ancora da colmare nella formazione delle generazioni di domani?

L’educazione al patrimonio culturale dovrebbe essere concepita come educazione civica, intesa come formazione al vivere comune, sociale, al rispetto dei valori condivisi e dei beni comuni. In quest’ottica, l’insegnamento della storia dell’arte, troppo spesso approcciata come materia di valenza meramente “estetica”, assumerebbe un ruolo centrale nell’istruzione scolastica. I programmi di storia, storia dell’arte e, quanto meno, letteratura italiana dovrebbero essere condotti in parallelo, per far comprendere che il patrimonio culturale è il prodotto delle epoche attraversate dall’umanità e che tutti, nell’oggi presente, siamo chiamati a conoscere, rispettare, proteggere e promuovere.

È fortemente auspicabile, poi, un maggiore raccordo tra i Ministeri dell’Istruzione e dell’Università con quello della Cultura, affinché ci sia una frequentazione assidua da parte degli studenti di tutte le età di musei e luoghi della cultura, che sono in primis spazi di formazione. Questo non solo per le materie umanistiche (storia, archeologia, storia dell’arte, letteratura), ma anche per le scienze dure: le collezioni d’antichità e d’arte e i resti organici conservati negli istituti culturali italiani, infatti, possono offrire un ineguagliabile campo di indagine per ricerche di chimica, fisica, antropologia, biologia, genetica, paleobotanica, archeozoologia. Senza tralasciare che la gestione museale implica sempre di più capacità manageriali che possono di certo essere supportate da studi di marketing, di economia della cultura, di politica economica.

Il patrimonio culturale italiano è assolutamente eccezionale ed esso può costituire un’opportunità di valorizzazione straordinaria del nostro Sistema Paese. Urge, quindi, uno sforzo comune per il superamento di una concezione del sapere a compartimenti stagni, che non giova né alla formazione dei singoli, né allo sviluppo della società.

Per quanto riguarda invece il rapporto di genere, secondo le statistiche tante sono le donne che studiano materie storico-artistiche ma quando andiamo a vedere chi ricopre ruoli dirigenziali risultano ancora in minoranza. Che cosa si sta facendo al riguardo?

La questione della disparità di genere nelle carriere apicali, sia nel pubblico che nel privato, in Italia è un fatto probabilmente legato all’ancora cronica carenza di sussidi e servizi di ausilio alle madri lavoratrici. Con questa consapevolezza, è stato istituito nel 2019 un Osservatorio per la parità di genere presso il Ministero della Cultura, con compiti di consulenza e supporto di elaborazione alle politiche per la parità di genere, nonché di attività di ricerca e monitoraggio sulle condizioni della parità di genere negli ambiti di competenza del Ministero. L’Osservatorio, inoltre, individua e propone buone pratiche, promuove la formazione, la conoscenza e la cultura delle pari opportunità.

Ad ogni modo, va sottolineato che nel contesto del Ministero molti sono gli incarichi di dirigenza apicale affidati a colleghe donne, che si contraddistinguono per particolari competenza e professionalità: si pensi al Parco archeologico del Colosseo, alla Soprintendenza Speciale di Roma, alla Direzione generale Biblioteche e istituti culturali, al Vittoriano e Palazzo Venezia, alla Reggia di Caserta, alla Galleria nazionale di arte moderna e contemporanea. Mi auguro che, in un futuro non lontano, i numeri diano voce alle competenze e che queste si possano esplicare a prescindere dal genere, in un contesto socio-economico che garantisca veramente a tutti pari opportunità di crescita professionale e di raggiungimenti personali.

Immaginiamo di fare un breve viaggio nel futuro: come vede i musei italiani tra vent’anni?

Li immagino come dei luoghi accoglienti e accessibili a tutti, indipendentemente dalle possibilità psico-fisiche e cognitivo-culturali, con politiche di gestione sostenibili, in spazi ecoefficienti ed energeticamente autonomi. Mi piace pensare che saranno sempre di più connessi, tecnologici, in rete tra di loro e con i cittadini, internazionali, multilingui e multiculturali, aperti alle diversità di ogni genere e di queste rappresentativi. Conto, infine, che siano sempre più pieni di giovani, di tutte le età, luoghi di condivisione e di formazione, di studio e di ricerca: in un’immagine sola, fucine di futuro.

L’articolo è stato pubblicato su Inside Art #131.