Il futuro si scrive nel presente

Patrizia Sandretto Re Rebaudengo racconta il suo punto di vista sullo stato dell'arte come mecenate, collezionista e Presidente della Fondazione nata a Torino nel 1995

Indagare le evoluzioni e i mutamenti del comparto artistico peninsulare attraverso l’esperienza di Patrizia Sandretto Re Rebaudengo comporta un viaggio attraverso la storia recente. Progetti nati nel secolo scorso si aggiungono a quelli attuali, accomunati da un pensiero che abita sempre nel domani.

Con una lunga attività di ricerca, mecenatismo e collezionismo alle spalle, la sua è una prospettiva che si può definire privilegiata per cogliere la temperatura in tempo reale dello stato dell’arte. Se scattassimo una fotografia istantanea adesso, cosa vedremmo nello scenario attuale dal punto di vista della produzione artistica contemporanea in Italia? Quali sono le differenze, ed eventualmente gli elementi di contatto, tra i temi e le modalità con cui gli artisti operavano al principio del millennio e oggi?

Osservo con attenzione la scena artistica italiana, soprattutto attraverso i viaggi e le mostre dello Young Curators Residency Programme (YCRP), la residenza che abbiamo attivato in Fondazione Sandretto Re Rebaudengo nel 2007 e che ogni anno porta a Torino e in Italia tre curatori e curatrici invitati a compiere un viaggio, una ricognizione capillare del sistema dell’arte del nostro Paese. Scelti da una giuria internazionale, i tre giovani professionisti provengono dalle migliori scuole di curatela del mondo: il loro sguardo esterno, straniero, si intreccia al nostro, tracciando, anno dopo anno, una mappa del panorama nazionale. La residenza è quindi anche uno straordinario e aggiornato osservatorio sull’arte italiana.

Rispetto alla scena di inizio millennio, vedo negli artisti e nelle artiste al lavoro oggi un forte impegno sui temi dell’ambiente e dell’ecologia, il ricorso sempre più frequente a pratiche community-based, insieme a una maggiore attenzione al ruolo dell’artista nella società e al riconoscimento anche formale degli art worker. Sono particolarmente colpita dai ritorni degli artisti nei luoghi dove sono nati, un fenomeno ancora contenuto ma a mio parere molto significativo, in controtendenza rispetto alla diaspora vissuta dalle generazioni artistiche nei decenni precedenti, con i trasferimenti a Berlino, Amsterdam, Londra, New York, Los Angeles.

Tra i diversi esempi, penso a Luigi Coppola, tornato da Bruxelles in Salento dove ha dato vita alla Casa delle Agriculture, un progetto di sviluppo rurale basato su pratiche agricole e comunitarie che ha l’obiettivo di generare un’economia sostenibile rafforzando la coesione sociale. Penso a Jamie Schneider che da New York è arrivata in Puglia, sulle tracce delle proprie antenate, e che nel 2018 ha dato avvio a Progetto, uno spazio espositivo di ricerca e residenza artistica nella campagna di Lecce. Sono pratiche che hanno antecedenti per esempio nel progetto di Gianfranco Baruchello Agricola Cornelia, portato avanti dal 1973 al 1981 e che oggi si riconfigurano anche nel segno dell’attivismo.

Nel 1995 istituisce la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo a Torino con lo scopo di diffondere e valorizzare le nuove generazioni di artisti italiani e stranieri. La vita della Fondazione – che da allora si è estesa alle sedi di Guarene, e Madrid e Venezia – copre un arco temporale di quasi 30 anni, e la stessa programmazione riflette l’evoluzione del panorama culturale e la sua apertura allo scambio con l’estero. È questa un’apertura che si può considerare applicabile all’intero territorio nazionale? Mentre dal punto di vista estero, che percezione si ha della scena artistica italiana che si è sviluppata negli ultimi vent’anni?

Ho sempre pensato, fin dai primi anni della Fondazione, che per sostenere l’arte italiana, il confronto internazionale fosse necessario, così come ho voluto che la Fondazione fosse un’istituzione europea, in grado di operare al di là dei confini nazionali, capace di mostrare nei propri spazi espositivi, i linguaggi dell’arte di tutto il mondo. La conoscenza dell’arte italiana all’estero negli ultimi anni è cresciuta, ma occorre continuare ad alimentarla, costruendo occasioni e piattaforme di scambio.

Il mio approccio è molto pragmatico, orientato cioè a colmare le eventuali lacune, a superare le criticità. Nel 2023, con il Comitato Fondazioni Arte Contemporanea, che presiedo dal 2014, e la Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, abbiamo lanciato Bel Paese. Promoting Italian Art Around the World, un programma di networking internazionale che offre ad artiste e artisti italiani la possibilità di entrare in contatto con alcune delle figure professionali delle più prestigiose realtà internazionali d’arte contemporanea. Il progetto è triennale e coinvolgerà 6 città italiane, 60 tra artiste e artisti e 30 tra curatrici e curatori, direttrici e direttori di musei. I primi due incontri si sono svolti nel 2023 a Napoli, alla Fondazione Morra Greco e a Torino, in Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Quest’anno a Milano e a Palermo. Bel Paese è un percorso di semina e sono certa che produrrà buoni risultati.

Ha più volte sostenuto, e dimostrato con il suo lavoro, l’importanza della creazione di reti per il benessere del comparto culturale. Quali sono secondo lei le criticità e le opportunità offerte dalla collaborazione tra istituzioni e in che direzione si sta muovendo l’Italia da questo punto di vista?

Nella mia lunga esperienza, la collaborazione con altre istituzioni ha sempre generato più opportunità che criticità. A Torino, la Fondazione ha promosso negli anni mostre insieme al Museo Egizio, ai Musei Reali, al Castello di Rivoli, alla GAM, alla Fondazione Merz. Nello statuto dell’istituzione, la creazione di reti stabili o di partnership di progetto rientra tra le missioni statutarie. Il Comitato Fondazioni Arte Contemporanea nasce dalla mia idea di unire in un’organizzazione stabile alcune delle principali non profit italiane, con l’obiettivo di dare visibilità a un privato fortemente impegnato nel campo della cultura e oggi include tre generazioni di istituzioni, tra le quali fondazioni che come Ratti, Sandretto Re Rebaudengo, Baruchello e Trussardi, sono state pioniere nel nostro Paese di attività e programmazioni espositive dedicate specificatamente all’arte contemporanea.

L’intento prioritario era di aprire un’interlocuzione con il Ministero della Cultura, un’opportunità di confronto formalizzato con un Protocollo di Intesa firmato nel 2015 e rinnovato nel 2021. Come Comitato abbiamo sollecitato e sostenuto la nascita dell’Italian Council, il progetto del MIC nato nel 2017 che ha contribuito in modo decisivo a professionalizzare, a dare impulso e a sostenere l’intero settore, pubblico e privato, dell’arte contemporanea italiana. Sono convinta che stiamo procedendo nella direzione giusta: il principio della collaborazione è entrato a far parte delle dotazioni di istituzioni grandi e piccole, sviluppando una fitta rete di contatti con le scuole, gli enti locali, le associazioni, i gruppi di comunità.

Nei suoi studi di poetica e letteratura, Giorgio Agamben afferma che per interpretare la cultura italiana è necessario individuare una serie di concetti polarmente coniugati. Questa “polarità” intrisa nell’identità peninsulare e ramificata, si potrebbe riflettere nell’esistenza di due livelli, uno alto e uno basso, nel sistema artistico italiano, eppure i grandi cambiamenti a livello tecnologico e sociale stanno inevitabilmente rimescolando le carte in gioco. Qual è lo spazio di dialogo tra la scena istituzionale e quella indipendente e cosa secondo lei può favorire uno scambio fertile in tal senso?

Negli ultimi anni, l’arte mi ha insegnato a evitare di pensare in termini di polarità, per tentare di superare il pensiero binario che permea la nostra cultura e il suo impianto filosofico. Questo vale per le identità, le persone e direi persino per le organizzazioni. I termini istituzionale e indipendente non sono antitetici ma ambienti e operatività reciprocamente necessari. Il programma Verso che, per un anno e mezzo, dal 2021 al 2022, ha proposto in Fondazione Sandretto Re Rebaudengo mostre, laboratori, public program e contenuti digitali, è stato una vera palestra in questo senso.

Progettato e promosso dalla Fondazione insieme all’Assessorato alle Politiche Giovanili della Regione Piemonte, nell’ambito del Fondo nazionale per le politiche giovanili e dedicato a persone dai 15 ai 29 anni, ha visto istituzioni pubbliche, private, scolastiche cooperare con gruppi indipendenti, pensatrici, teorici, filosofe, attivisti. Questo tipo di cooperazione ha dato vita a uno spazio pedagogico aperto, dinamico e orizzontale, in cui i partecipanti hanno praticato il pensiero critico autonomo, sviluppato una conoscenza transdisciplinare, prodotto discussioni e pensiero collettivo su temi emergenti come l’ecologia, la radicalità, l’inclusività, l’abilismo. Penso dunque che lo spazio di dialogo e progettualità tra questi due mondi sia davvero molto ampio.

Dal punto di vista del collezionismo, quali sono gli aspetti che ha notato evolversi o mutare nel corso del tempo? Cosa desiderano i collezionisti oggi rispetto alla fine dello scorso secolo?

Per definire il collezionismo di ultima generazione mi vengono in mente gli aggettivi informato, dinamico, mobile, socievole. La dimensione segreta e privata della collezione, che personalmente già a metà degli anni ’90 ho deciso di superare, è oggi pressoché estinta. La collezione è uno strumento per costruire una propria storia, nutrita di temi, interessi, forme, da condividere al di là della sfera individuale.

Osservo con attenzione la tendenza dei collezionisti e delle collezioniste più giovani a riunirsi in gruppi, associazioni, a entrare a far parte dei programmi di membership di musei e fondazioni, a mettersi in viaggio per visitare insieme le Biennali, la Documenta, le grandi mostre. La tendenza a mostrare le proprie opere può concretizzarsi nella creazione di una sede permanente ma anche, in modo più diretto e spontaneo, nell’apertura, per esempio durante le fiere e i grandi eventi, della propria casa, della sede di un ufficio professionale, di un ambiente di lavoro interno a un’azienda.

Il sistema arte italiano è costellato da numerose esperienze distribuite su tutto il territorio e da una forte diversificazione delle pratiche artistiche; di conseguenza fare considerazioni di carattere generale non può prescindere dalla presa d’atto di tale contingenza strutturale. Riflettendo sulla diffusione e promozione dell’arte oggi, anche rispetto alle esperienze dei movimenti artistici del ‘900, quali sono a suo avviso i punti di forza di questa varietà talvolta atomizzata e dove si può intervenire per sostenerli? Cosa ci si può aspettare, o meglio immaginare, che accada negli anni a venire?

Viaggiando per l’Italia, ascoltando i racconti dei curatori e delle curatrici dello YRCP, dei tutor e delle studentesse e degli studenti di Campo, il nostro corso in studi e pratiche curatoriali, ho maturato in questi anni la percezione di un’Italia di città e di luoghi dotati di fisionomie uniche e distinte, di peculiarità, energie, aspirazioni rispecchiate nelle diverse strutture delle loro scene artistiche. L’atomizzazione può essere una criticità e va certamente corretta attraverso azioni di coordinamento che sappiano attenuare le distanze tra centro e periferie, tra centri urbani, zone rurali e paesaggistiche. Abbiamo però la fortuna di vivere in un territorio che anche per quanto riguarda l’arte contemporanea è ricco di biodiversità, ciò che ci mette al riparo da una creatività omologata e standardizzata. Ciò che possiamo immaginare per il futuro, è ciò che stiamo già costruendo nel presente.

L’articolo è stato pubblicato su Inside Art #131.