BASE Milano: un racconto del Manifesto del centro culturale

Indicazioni per disarticolare il sistema dall’interno. Parla la direttrice artistica del centro culturale milanese Linda Di Pietro

BASE Milano è un centro culturale ibrido, “un organismo vivente” come viene presentato sul sito, aperto a Milano nel marzo del 2016. Un fitto calendario di eventi – tra cui talk, residenze d’artista, incontri pubblici, festival – definisce l’ossatura etica e culturale che anima gli ambienti raccolti in 12mila metri quadri, adibiti anche a co-working.

Il Manifesto è una delle ultime fatiche di BASE: un testo di quindici pagine incentrate sul tema dell’accessibilità culturale in tutte le sue forme. Emerge, fra le parole del Manifesto, la volontà del centro di produzione culturale di porsi nel vivo della contemporaneità, radicarsi nell’eterogeneo contesto milanese, evitare di guardare dall’alto a dinamiche giudicate estranee e strutturarsi invece come un luogo permeabile. «Sicuramente – dice Linda Di Pietro, direttrice artistica di BASE Milano – non ci tiriamo fuori dal sistema, siamo un pezzo di qualcosa che va trasformato, viviamo dentro a degli ingranaggi che possiamo però rallentare, disarticolare».

Partiamo dalle fondamenta: BASE è un bel nome, come è nata l’idea?

Il nome BASE è il frutto di una riflessione: cosa vuol dire nascere da zero e fondare un progetto di rigenerazione urbana in un ambiente che in quel momento aveva solo le condizioni base, appunto, di uno spazio? Era cioè un insieme di muri, finestre, scale, pavimenti, vuoto e libero da ogni funzione. È anche un nome simbolico: la base è il posto dal quale partire, un trampolino verso il futuro. L’idea di fondo era quella di avere un luogo dedicato alla cultura che trovasse dei modelli di sostenibilità innovativi, con l’intento di creare un ecosistema culturale e creativo.

Come è cambiato il ruolo di BASE nel contesto delle produzioni culturali cittadine?

In un primo momento siamo stati un po’ il contenitore di una serie eterogenea di proposte culturali già esistenti. Probabilmente il momento chiave è stato quando abbiamo deciso di investire sulla produzione culturale interna, realizzando noi stessi degli eventi. Il primo progetto è stato FAROUT, il festival di arti performative, che con il tempo è diventato una sorta di matrice in grado di declinarsi in una serie di proposte prodotte internamente. Ora abbiamo un calendario che conta numerosi eventi come incontri pubblici, programmazione di residenze, talk e progetti legati alla Design Week.

L’eterogeneità dei progetti ospitati non rischia di soffocare ogni attività proposta?

Ci sono due ordini di ragionamento: l’inevitabile mimesi con un contesto specifico come Milano, città multiforme, molteplice, in grado di regalare e produrre stimoli, iper-produttiva e plurale; e, dall’altro lato, la nostra idea di costruire uno spazio aperto a tutte e a tutti 365 giorni all’anno con l’intento di includere comunità diverse. Tenendo fermi questi due punti, proviamo a costruire una serie di attività indirizzate a pubblici diversi proponendo il palinsesto culturale come una sorta di dorsale. Ben venga, quindi, se l’eterogeneità dei progetti risponde alla città e al suo pubblico. Un’altra questione è quella di cannibalizzarsi da soli, rischio che è sì esistente, ma insito nella contemporaneità che tutti i giorni viviamo e dalla quale non vogliamo sottrarci, e che ci proponiamo di neutralizzare costruendo progetti e proposte per comunità differenti e pubblici specifici.

Quale è stato l’iter della scrittura del Manifesto?

È stata una gran fatica, un percorso che ha preso tantissime energie mentali e umane. Questo lavoro è l’esito di un’operazione di co-scrittura e co-design con operatori di settore che si occupano delle varie dimensioni di un concetto complesso come quello dell’accessibilità. Presto ci siamo accorti che non eravamo in grado di affrontare da soli il tema e abbiamo chiamato in causa chi per primo è discriminato: da un lato una decina di persone che rappresentano altrettante organizzazioni attive nel campo, dall’altro una serie di partner. Abbiamo così strutturato quattro tavoli di lavoro, grazie ai quali abbiamo scritto i cinque capitoli del Manifesto. Parallelamente, ci siamo sottoposti a un rigido e profondo ciclo di appuntamenti interni di formazione. Il risultato è comunque un prodotto dinamico, ancora in fieri, di cui una parte è già in corso di realizzazione e altre parti avranno bisogno di anni di maturazione e trasformazione.

Non deve essere stato facile raggiungere quella chiarezza di scrittura e accessibilità di argomenti che caratterizza il Manifesto.

Anche in questo caso è stato un lungo processo diviso in tappe. Abbiamo trascritto le indicazioni dei tavoli attraverso un linguaggio divulgativo e ri-sottoposto gli stessi argomenti alle persone dei tavoli che a loro volta hanno interagito sul testo da noi infine rivisto. Molta attenzione è stata posta sullo scrivere un testo inclusivo in tutti i sensi possibili: chiaro, facile da comprendere, evitando discriminazioni linguistiche attraverso, giusto per fare un esempio, l’uso delle circonlocuzioni al posto dei pronomi maschili e femminili.

L’impianto teorico di BASE che emerge dal Manifesto somiglia a quello degli spazi indipendenti e occupati dei primi anni Novanta. Sono stati un’ispirazione?

Direi non direttamente. Molte delle persone che però hanno lavorato al Manifesto ne hanno fatto parte, sono figlie di quei movimenti, anche di esperienze più recenti come Teatro Valle Occupato, Macao, Il Campo Innocente, ma non c’è stata una relazione diretta.

Il Manifesto esprime posizioni chiare anche in materie economiche, la necessità di finanziamenti non potrebbe mettere a repentaglio l’integrità del progetto?

Sicuramente non ci tiriamo fuori dal sistema, siamo un pezzo di qualcosa che va trasformato, viviamo dentro degli ingranaggi che possiamo rallentare, disarticolare. È un pensiero costante quello della dimensione etica, se non si crea una struttura attorno a queste linee di lavoro tutto diventa superficiale. Non vogliamo stare fuori da questo mondo: agire in modo diverso potrebbe farci correre il rischio di essere eremiti e vivere in una torre d’avorio è un’opzione che vorremmo evitare. Selezioniamo sempre le sponsorizzazioni, anche se viste le condizioni di precarietà del mondo della cultura e le poche risorse ad esso destinato è difficile dire di no. Le risorse sono fondamentali anche solo per permetterci di trasformare BASE in uno spazio il più accogliente possibile, aperto, per investire nella comunicazione per esempio. Stiamo infatti lavorando alla scrittura di un codice etico da rispettare noi e i fornitori che lavorano presso di noi.

Il Manifesto dopo quindici pagine si conclude con una domanda che vorremmo fosse anche l’ultima di questa intervista: manca qualcosa?

Quella domanda e lo spazio bianco che la segue sono un tentativo di mettersi da parte, assumere un atteggiamento d’ascolto, passare il microfono. Ora, dopo un po’ di tempo dalla scrittura del Manifesto, sono emerse una serie di questioni, tra cui sicuramente la dimensione intergenerazionale. Le quindici pagine del documento, infatti, parlano chiaramente a una generazione ben definita, mentre per gli over 60 resta un testo complesso da capire.

Il Manifesto, insomma, rischia di tagliare fuori un pezzo di pubblico, dobbiamo lavorare in futuro anche sulla comunicazione con diverse generazioni. Osserviamo anche cosa manca in città, ad esempio come ci posizioniamo di fronte al tema dell’iniquità di condizioni di vita nel contesto cittadino. Proprio in relazione a questo tema e con l’avvicinarsi della Design Week, stiamo declinando il laboratorio I.D.E.A. sulla questione dell’accesso alla casa a Milano, vera frattura fra chi vive la città e chi invece ne viene escluso.

L’articolo è stato pubblicato su Inside Art #130.