L’importanza delle Avanguardie Storiche del primo Novecento è ormai da tempo dato acquisito, ma non è sempre stato così. L’Italia ha svolto un ruolo centrale nelle operazioni di riscoperta e riabilitazione, ad esempio, del Futurismo italiano, ad opera di Maurizio Calvesi e non solo, alla metà degli anni Sessanta. Poco dopo, più precisamente nei primi anni Settanta, viene acceso un altro riflettore su un altro movimento d’avanguardia primonovecentista: il Surrealismo.
La cornice è la città di Salerno, meglio, l’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Salerno di cui è presidente Filiberto Menna, il quale durante l’anno accademico 1972-1973 organizza con Angelo Trimarco, docente di Teoria della Critica d’Arte presso lo stesso ateneo, il convegno di Studi sul Surrealismo.
Non un convegno stricto sensu, ma una successione di interventi che tra il marzo e il maggio del 1973 ha visto protagonisti accademici e studiosi italiani “tutti impegnati in un riesame del Surrealismo dal punto di vista di discipline diverse. L’obiettivo dichiarato da Menna è “far reagire la cultura italiana […] di fronte ai dati complessi forniti dalla vicenda surrealista, dopo i molti, forse troppi anni di disattenzione o addirittura di sprezzante rifiuto”. Rileggere, anche solo parzialmente, la lista e i contenuti degli interventi testimonia la straordinarietà dell’evento: “Il sublime subliminale di Max Ernst” (Giulio Carlo Argan); “Sull’erotismo: Sade, Bataille, Breton (Alberto Boatto); “La tradizione esoterica in Duchamp e nel Surrealismo (Maurizio Calvesi); “Erik Satie e la musica del Surrealismo (Gioacchino Lanza Tomasi); “Artaud e il teatro della crudeltà” (Achille Mango); “La trasgressione del Surrealismo” (Mario Perniola); “La femme introuvable” (Silvana Sinisi). E testimonia anche di un’impostazione che intende attraversare i vari strati del movimento e restituirne un’immagine quanto più screziata nella convinzione che ad alimentare l’epopea surrealista abbiano contribuito tante e varie traiettorie. Una miscela esplosiva che si è nutrita senza dubbio di esperienze di poco antecedenti, come il Dadaismo e la Metafisica, e che ha trovato nella figura potente ed ingombrante di André Breton sicuramente il suo centro nevralgico, ma non la sua unica fonte di propulsione. Con questo approccio l’assemblea salernitana ha ricostruito il mosaico surrealista.
Oggi, a più di cinquant’anni di distanza, l’Università di Salerno ha recuperato quell’esperienza nodale cercando un aggancio e una possibilità di continuità proponendo, all’interno del Dottorato in Metodi e Metodologie della Ricerca Archeologica e Storico-Artistica, un ciclo di seminari interdisciplinari che rimettono in questione la carica prismatica del Surrealismo (https://www.dottoratomem.it/seminari-2024/).
A cento anni dalla sua nascita, in particolare dalla pubblicazione del suo primo manifesto (Editions du Sagittaire, Parigi, ottobre 1924), la casa editrice minimum fax ha pubblicato, nella sezione “Introvabili”, il libro di Matthew Josephson, Surrealisti ed espatriati. La Parigi letteraria degli anni Venti, nella traduzione di Matilde Boffito Serra. Un testo autobiografico pubblicato negli Stati Uniti per la prima volta nel 1962 che ricostruisce l’esperienza di vita del suo autore, scrittore e giornalista newyorkese, appassionato frequentatore della Parigi del primo Novecento, città calamita anche per le generazioni di giovani poeti e scrittori statunitensi. Un testo che racconta inizialmente del desiderio di emancipazione di questi giovani autori che trovano un primo approdo nella scena vivacemente deludente del Greenwich Village, la cui promessa d’avanguardia, disattesa, spinge Josephson e tanti altri a cercare nuovi stimoli ed energie creative da questa parte dell’Atlantico.
Parigi, la città che più di ogni altra poteva accogliere e soddisfare quel bisogno impellente di realizzarsi come scrittori, e più di tutto, la città dove il patto tra arte e vita riusciva a stringersi nelle forme più spinte. Ed infatti l’impatto iniziale di Josephson con la temperie culturale parigina si colora dei toni anarchici ed estremi del Dadaismo e delle sue feste, nelle quali l’autore ha, tra le varie, l’occasione di avvicinarsi a quei personaggi che poco più avanti daranno vita al movimento surrealista: Breton, Aragon e Soupault, in particolare. Dopo varie peregrinazioni, e un passaggio determinante a Berlino, Josephson torna a Parigi proprio negli anni in cui si stava lavorando ai “campi magnetici” e alla scrittura automatica. Di questo periodo l’autore registra l’impressionante energia che si sprigionava all’interno del circolo bretoniano, ma di questa annota anche la carica dispotica del suo santone. Breton, con cui, proprio Josephson, come altri, ha a un certo punto screzi e diversità di opinione che portano il poeta francese a lanciare una scomunica sullo scrittore americano.
La vicenda surrealista è la parte centrale di un lungo libro che risulta appassionante e divertente proprio nel racconto delle peripezie parigine: l’estasi e l’esplorazione collettiva del mondo dei sogni, le comunicazioni telepatiche tra Desnos e Duchamp, i festini ipnotici andati a male, gli attacchi di spleen, la fierezza degli atti anti-sociali, il culto sfrenato dell’eresia.
Ma come spesso capita a ogni resoconto autobiografico corre il rischio di inciampare nelle imprecisioni della memoria a lungo termine (il primo manifesto viene pubblicato nell’ottobre e non nel dicembre del 1924), e di cedere alle lusinghe dell’autocelebrazione.