La casa è così triste. Se ne sta
come l’hanno lasciata, ordinata
per l’agio degli ultimi ad andarsene
come per riconquistarli. Invece,
priva di qualcuno a cui piacere,
appassisce, non avendo cuore
di dimenticare il furto e di voltarsi
verso com’era all’inizio, un’occhiata
gioiosa a come le cose
avrebbero potuto essere, speranze
a lungo disattese. Potete
vedere com’era. Guardate
i quadri e le posate. Gli spartiti
sullo sgabello del piano. Quel vaso.
La casa è così triste
Philip Larkin
Esiste uno spazio nel quale le cose e il nulla dialogano serenamente tra di loro, ma non appena ci si
volta a guardare, cala il silenzio. Tanto nel mito di Orfeo ed Euridice quanto nel gioco infantile ‘Un,
due, tre … stella!’ l’attrazione per ciò che si nasconde alla vista risulta fatale. Eppure, tanto accade
in quell’intervallo, che è fatto di spazio e tempo. Esistono luoghi in cui questo intervallo è sfuggito
alla narrazione e alla letteratura per farsi realtà che trapassa la quotidianità dei suoi abitanti. Cuba
rappresenta forse in questo un archetipo e una fascinazione agli occhi occidentali, che vale la pena
esplorare nella sua realtà e non nella sua narrazione.
Liatna Rodriguez, curatrice indipendente a L’Havana, scova spazi abbandonati, inutilizzati, e li apre
al pubblico invitando artisti e mettendo in connessione realtà ibride, portando avanti un progetto che
suona molto diverso dall’analogo approccio in Europa. Nella capitale si elevano i moti che
spingono dal resto dell’isola caraibica e che emergono nella forma della ricerca visiva degli artisti
che riescono a lavorare inserendosi nelle maglie di un potere tentacolare. In quella che era una casa
abitata, compare così INHABITED, una mostra di nove artisti cubani di differenti generazioni, che
parla di partenza e di assenza, di ciò che genera il peso di una realtà che disloca: il più grande esodo
di cui la storia cubana abbia mai fatto esperienza. A produrre il progetto è Bode, galleria berlinese
con un programma internazionale che collabora con artisti e curatori contemporanei su scala
globale.
Giocando con la terminologia del titolo, la collettiva si muove continuamente tra abitabile e
inabitabile, a significare che ciò che non è abitabile è in realtà abitato e interroga così il senso stesso
dell’abitare. Nella tipica architettura coloniale, al di sopra degli spazi di Infraestudio, studio
sperimentale di architettura, galleggia un percorso di video, pitture, installazioni e fotografie che
sono mosse dal problema del vuoto e dell’assenza, della solitudine e della rovina.
Nel dipinto Monzon di Alejandro Campins si erge un tempio tibetano su un monte dai toni seppiati.
La prospettiva perduta appiattisce il paesaggio, il quale, nel vicino quadro di Laura Carralero,
Standing Structure, si astrae, trovando la sua corrispondente geometrica tra forme sospese su uno sfondo monocromo. Uno strutturalismo che ricompare in La forma olvida de donde viene: in questa
serie il collettivo Infraestudio ricalca i plastici di strutture abitative annullandone i connotati
intrinsechi. Ciò che rimane sono forme ortogonali appoggiate alle maioliche del terrazzo esterno,
mentre il silenzio della strada entra rumorosamente nella “casa”. Da un monitor a tubo catodico
proviene lo sfrigolare della pellicola su cui Alejandro Alonso ha girato Home, un cortometraggio in
cui l’artista si addentra in nove piccoli centri abitati proiettati nell’immensità degli Stati Uniti.
Curiosamente, ognuno di questi paesini si chiama “Cuba”.
Camminando nel corridoio ci si imbatte in Series 00:00:00 di Linet Sánchez, la fotografia di una
scala in bianco e nero. L’occhio attento potrà cogliere la natura fittizia della scala che,
magistralmente costruita dall’artista, non conduce da nessuna parte. Dietro di lei, un tappeto riporta
la scritta Gimnasio, dell’omonima opera di Luis E- López-Chávez, mentre le scure e decadenti
pitture di José M. Mesías El bosque está solo y puede que llueva e El cactus en el circulo infantil
contornano le pareti conservandone il vuoto. Speculari sull’altro lato del corridoio gli oli su tela di
Luis E- López-Chávez De la serie La conducta doméstica e il suo neon The End.
È nell’ultima stanza che la mostra offre la possibilità di uno sguardo a un orizzonte, a una dialettica con l’esterno o il lontano che, in questo preciso contesto, non può che essere ideale. Sul pavimento scorre Far from the houses (to Carl Andre) di Ezequiel O. Suárez, esplicito omaggio al minimalismo e alla cultura pop americana e altrettanto esplicita declinazione al reale di bottiglie di rum e alcol. Punta nella direzione di El dia que te dije adiós di Osvaldo Gonzalez, che nuovamente con un materiale semplice, lo scotch, tirato e retroilluminato, restituisce l’inconfondibile immagine di una finestra che contraddittoriamente a se stessa non mostra nulla se non una luce gialla, melanconica. Quel desiderio di partire che torna indietro con la stessa forza con cui è stato scagliato nel mare.
La mostra è accompagnata dal testo di Ramón Hondal, Ordinare un vuoto per abitarlo, il quale
sceglie di partire dalla poesia di Philip Larkin La casa è tanto triste. La sensazione di attraversare
uno spazio vuoto e carico di volti e memorie fantasmatiche si attacca allo spettatore come quella
paura di cui l’autore scrive in merito agli oggetti che chissà, hanno abitato quella casa prima di
oggi: che gli stessi non siano esistiti prima che arrivassimo noi a osservarli. INHABITED si sposta
dunque da un piano materiale a uno metafisico, tocca interrogativi sul senso della rappresentazione
e i suoi limiti, sovrapposti a quelli dello sguardo.
INHABITED
fino al 2 febbraio
L’Havana, Cuba
info: amlatina.contemporaryand.com