Tra testo e sguardo. Intervista con Tommaso Spazzini Villa

Vedere ciò che non si vede, in un costante tentativo di svelamento, ma non per capire tutto. Tommaso Spazzini Villa, terzo posto al Talent Prize 2023, racconta le proprie opere

Se qualcosa ti emoziona non servono spiegazioni. Al contrario, “nessuna spiegazione può farti emozionare” asseriva Federico Fellini. Tale assunto sembra avere un certo riscontro nell’arte di Tommaso Spazzini Villa, artista che, da sempre, ha posto al centro della sua ricerca il rapporto dell’uomo con la natura, vista come bacino di svelamento di verità più o meno complesse e tangibili. Ciò a cui oggi l’artista cerca di fare maggiore attenzione è certamente la verità interna al suo lavoro, una verità spesso non razionale, certamente coerente, portatrice di umanità.

Parliamo dell’opera con cui hai partecipato al Talent Prize 2023 e con cui ti sei aggiudicato il terzo posto, Autoritratti [Odissea]. Qual è stata la genesi dell’opera?

Ho preso un’edizione Einaudi dell’Odissea, nella traduzione di Rosa Calzecchi Onesti, e ho strappato tutte le pagine. In seguito ho consegnato ciascuna delle pagine a un detenuto diverso tra quelli che ho incontrato nelle varie carceri che ho visitato: c’è stato quindi un incontro unico tra la pagina e chi l’ha ricevuta. A ciascuna persona ho chiesto di sottolineare, all’interno del testo ricevuto, alcune parole che insieme andassero a comporre una frase di senso compiuto, una frase dunque riconoscibile e vera per la persona stessa, che parlasse di chi la compone, escludendo ogni fine estetico o intellettuale. Questo lavoro parte da un elemento dato, quello delle specifiche parole presenti nella pagina distribuita, unita alla libertà, per chi la riceve, di riconoscersi e ritrovarsi. Ho scelto l’Odissea perché è uno dei testi archetipici per eccellenza, che ha avuto nella storia, per l’ascoltatore prima e per il lettore poi, la funzione di poter riconoscere le proprie paure, ansie, sogni e pensieri, tutti all’interno di una narrazione che li contiene al suo interno. Consegnando le oltre quattrocento pagine ai partecipanti, la mia scommessa era che ne scaturisse un metatesto capace di parlare del profondo di queste persone, e della condizione di privazione e limitazione della libertà.

Già nel 2015 eri stato finalista al Talent Prize, con l’opera Presa di coscienza sulle religioni. Quanto sono distanti e al contempo vicine le due opere?

Le due opere sono distanti nella misura in cui Autoritratti [Odissea] è un progetto di arte partecipativa nel quale emergono all’interno di un testo centinaia di voci. Per quanto riguarda Presa di coscienza sulle religioni è un lavoro molto più estetico e statico, davanti al quale il fruitore dell’opera è lasciato libero di seguire i percorsi delle radici e il loro incontro con i testi sacri. Per il pubblico l’incontro con le pagine di Presa di coscienza sulle religioni è ogni volta libero e nuovo, mentre in Autoritratti [Odissea] l’osservatore è portato a entrare in contatto con centinaia di voci certamente dinamiche ma che conducono verso l’incontro con un’umanità e una sofferenza molto profonde. Il punto di contatto tra le due opere può però figurarsi come due modi differenti di affrontare un testo, a volte visto come deposito di storia e di cultura, altre come specchio di esperienze, emozioni, vita. Ciò che tiene vicine le due opere è la centralità del testo e ciò che le distanzia è l’approccio al testo stesso.

Una volta hai dichiarato che la cosa che ti emoziona di più è cercare di vedere ciò che non si vede. Moreau, pittore simbolista, diceva: “Credo solo a ciò che non vedo e solo a ciò che sento (dentro)”, sostenendo che ciò che vediamo è spesso mendace oppure è semplicemente una piccola parte del tutto. Ne sei ancora convinto?

Ne sono profondamente convinto. Posso dire che negli anni alcune sfumature siano cambiate, ma ciò che resta uguale è certamente l’emozione che provo nei confronti del momento di svelamento del reale, quando ciò che è nascosto dà a vedere parti che non si mostrano immediatamente. Quello che invece è cambiato è il mio rapporto con la verità. Quando Grotowski si trovava davanti a un lavoro teatrale – ma questo può valere anche per un lavoro d’arte visiva – lo valutava secondo due parametri: capisco/non capisco e credo/non credo. Da qui scaturiscono quattro casi: il primo in cui l’osservatore si trova davanti a una opera che non capisce e in cui non crede, e in questo caso non è data nemmeno l’arte, il secondo caso in cui il pubblico si trova davanti a un’opera che capisce e in cui crede, ed è questo il caso dell’arte mainstream, nel terzo caso si trova invece di fronte a un’opera che capisce ma in cui non crede, ed è questo il caso della cattiva arte. Il quarto e ultimo caso è quando ci si trova di fronte a un’opera che non si capisce del tutto ma in cui si crede, e questa è l’unica vera arte – diceva Grotowski – davanti alla quale qualcosa della razionalità sfugge ma al cui interno riconosciamo della verità. Per quanto riguarda me, nel mio piccolissimo, ciò a cui oggi cerco di fare attenzione è la verità interna del lavoro, una coerenza non razionale portatrice di umanità.

Negli anni non hai più usato, per firmare i tuo lavori, il tuo pseudonimo Tindar degli inizi, ma hai scelto di usare il tuo nome e cognome. Qual è la ragione di questa scelta e come essa si collega allo sviluppo della tua ricerca artistica?

Ho semplicemente capito che il mio pseudonimo era come una maschera e ho ritenuto che non fosse più opportuno usarla, e me ne sono liberato.

La natura è sempre stata centrale negli anni di Tindar. Lo è ancora?

Certamente. La natura continua a essere centrale nella mia ricerca come serbatoio infinito di forme a cui posso attingere, forme che dunque si porgono come serbatoio di domande, come luogo del mistero, ovvero come luogo di ciò che non riusciamo ad afferrare ma nel quale siamo inseriti e del quale facciamo effettivamente parte. La natura è per me il più grande luogo di domande a cui cercare di non dare risposte.

Parliamo non solo di testi ma anche di luoghi. Cosa puoi dirmi del tuo progetto al borgo di Castropignano,  Il pomeriggio della vita, un intervento site-specific ispirato alla storia e all’identità del luogo, nato dopo un periodo di residenza ed esplorazione del territorio?

È stato un progetto stupendo, in cui mi sono nutrito dell’energia del luogo e interrogato sul legame che si sarebbe inevitabilmente creato tra me e il castello. Quello di Castropignano è un castello abbandonato da due secoli, ma alle spalle ha avuto cinque secoli di vita brulicante. Uomini e donne l’hanno vissuto, nascite, amori e morti ne hanno scandito l’esistenza. Da due secoli regna il silenzio e l’abbandono. Pietre come ossa di uno scheletro abbandonato al pomeriggio della sua vita. Per 100 giorni è tornato a battere un cuore, un cuore che viveva a distanza ma la cui eco risuona tra le mura del castello. Una lampadina, costantemente collegata al mio cuore, si accendeva e spegneva al ritmo del mio battito cardiaco e due altoparlanti ne diffondevano il suono, così da riportare una pulsazione di vita in memoria di chi lo ha abitato e vissuto. Ovunque fossi nel mondo, il battito del mio cuore si riverberava all’interno del castello.

Per quanto riguarda La fortuna della fragilità, doppia personale alla Galleria Mattia De Luca di Roma, com’è nato il dialogo del tuo lavoro con il lavoro di Marcela Caldéron?

L’idea nasce durante la visita a una residenza d’artista alla quale Marcela partecipava. Da subito ci siamo trovati in grande sintonia, ci siamo accorti che le nostre ricerche artistiche ruotano intorno a temi comuni e cari a entrambi, osservati da punti di vista molto diversi. Sia lei che io ci interroghiamo su temi che spaziano dalla transitorietà all’impossibilità di trovare una lettura univoca della realtà, dal fascino per il mutamento alla creatività della Natura. La mostra è stato il risultato di questo dialogo. Lavorare accanto a lei è stata una bellissima opportunità da cui è nata una profonda amicizia.

Puoi anticiparci qualcosa dei tuoi progetti futuri?

Attualmente sto lavorando a un progetto sull’uso della voce nella preghiera, la preghiera intesa come momento di raccoglimento intimo e non come momento corale: in questo caso la voce, il canto, sono gli elementi che connettono la persona a un’entità più elevata. 

Autoritratti [Odissea]
Autoritratti [Odissea] è l’opera con cui Tommaso Spazzini Villa si è aggiudicato il terzo posto all’edizione 2023 del Talent Prize e il Premio Speciale Emanuele Emmanuele. L’opera, un video della durata di oltre un’ora, è la risultante di un progetto iniziato nel 2018 che ha coinvolto quattrocento detenuti di diverse carceri italiane. A ogni detenuto è stata assegnata una pagina differente dell’Odissea con la richiesta da parte dell’artista di formare, con le parole presenti nella pagina stessa, una frase di senso compiuto estremamente autentica e personale. Le pagine vuote, invece, sono traccia di un silenzio, di coloro che hanno desiderato non prendere parte al progetto. Una volta ricomposto l’intero testo mediante le pagine elaborate da ciascun detenuto, emerge un meta-testo che dà voce al vissuto personale dei partecipanti. Nel video in bianco e nero la voce dell’artista legge, una ad una, le frasi elaborate dai detenuti.

BIO

1986 Nasce a Milano l’8 gennaio
2012 Si laurea in storia dell’arte all’Università La Sapienza, Roma
2016 Prima mostra personale alla Galleria Project B Gallery, Milano
2019 Entra a far parte della collezione del Philadelphia Museum of Art
2022 Partecipa a “Una Boccata d’Arte”, progetto di Galleria Continua e Fondazione Elpis

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