Palazzo Reale a Milano ospita fino al prossimo marzo la mostra Goya. La ribellione della ragione, curata dallo storico dell’arte spagnolo Víctor Nieto Alcaide e realizzata in collaborazione con la Real Academia de Bellas Artes de San Fernando (istituzione artistica e didattica plurisecolare presso la quale lo stesso Goya ha insegnato) e il patrocinio dell’Ambasciata di Spagna in Italia e dell’Istituto Cervantes di Milano.
L’esposizione segue una precedente mostra dedicata all’artista, realizzata sempre a Palazzo Reale nel 2010 con la curatela di Valeriano Bozal e Concepción Lomba: questa, intitolata Goya e il mondo moderno, si concentrava sull’influenza che Francisco Goya (1746-1828) ha esercitato sugli artisti moderni e contemporanei mediante il confronto tra le opere di questi ultimi e alcuni lavori (pochi, in realtà) dell’artista aragonese. Picasso, Delacroix, David, Klee, Miró, Pollock, Bacon sono solo alcuni dei nomi che erano presenti nella mostra del 2010, per sottolineare il ruolo di precursore che Goya ha avuto tanto nei temi quanto nella libertà stilistica ed espressiva e che ha caratterizzato tutto il suo percorso artistico.
Tale elemento emerge anche nella mostra attualmente in corso la quale, diversamente dalla precedente, espone solo opere dell’artista spagnolo, presentando così al pubblico un’ampia panoramica del suo catalogo, per quanto alcune delle tele più note dell’artista (La famiglia di Carlo IV, la Maya Desnuda, la Maya Vestida, il Ritratto della Duchessa d’Alba in bianco, L’esecuzione del 3 maggio 1808) siano rimaste a Madrid.
La mostra è comunque molto ricca e l’allestimento (realizzato da Studio Novembre) si presenta chiaro e ordinato, scandito cromaticamente fin dal pannello iniziale recante la biografia dell’artista: ciascuna fase della sua vita è contraddistinta da un colore che poi si ritroverà anche nelle varie sale che costituiscono il percorso (bianco e beige nelle prime sale dedicate agli esordi di Goya, ai ritratti, alle opere sull’infanzia e sulla corrida; rosso e nero nelle ultime, dove temi e stile di realizzazione si incupiscono).
La prima sala sembra configurarsi come una sorta di “biglietto da visita” dell’artista poiché contiene la sua prima opera significativa, ovvero Annibale vincitore osserva l’Italia dalle Alpi per la prima volta (1771), da lui presentata in occasione di un concorso artistico presso l’Accademia di Parma (durante il suo viaggio di formazione in Italia) nel quale non risultò vincitore ma ottenne una menzione onorevole. L’opera rappresenta un caso atipico nella produzione di Goya per via del soggetto storico e dello stile ancora legato alle convenzioni accademiche, presto da lui rielaborate in un approccio artistico estremamente personale. Assieme all’Annibale, due dei tanti autoritratti che Goya ha realizzato durante la sua vita: l’Autoritratto al cavalletto (1785) e Francisco Goya y Lucientes, Pintor (1797-99), incisione all’acquaforte che l’artista antepone alla serie dei Capricci, al posto de Il sonno della ragione genera mostri, che inizialmente aveva pensato di porre a incipit della raccolta di stampe (è emblematico che Goya abbia scelto di aprire una serie che prende di mira i vizi e le ipocrisie umane proprio con il suo volto, accompagnato dalla specifica “pintor”: Goya sembra così ribadire la sua volontà non di ergersi a moralista bensì di usare la propria arte come medium privilegiato per esprimere la sua personale visione del mondo).
A completare la sala, il pendant di ritratti che Goya realizza per i sovrani di Spagna nel 1789. È significativo che i ritratti di Maria Luisa di Borbone e di Carlo IV siano stati esposti proprio in questa sala iniziale e non in quelle successive dedicate alla ritrattistica di Goya: infatti, pur lavorando a lungo per committenze aristocratiche o – come in questo caso – addirittura reali, Goya non scende mai a compromessi con la sua arte, rimanendo fedele alla sua volontà di autonomia espressiva. I ritratti dei sovrani ne sono l’esempio: non c’è assolutamente nulla di idealizzato in queste tele bensì re e regina sono impietosamente rappresentati con tutti i loro difetti (fisici e morali). Lo sguardo poco sveglio e vuoto del re fa il paio con la sua figura che, nel complesso, si presenta estremamente piatta: il rosso dell’abito rende il suo corpo quasi bidimensionale, soprattutto se confrontato con i panneggi del tendaggio verde in secondo piano e con la figura della moglie, la quale sembra dotata di una tridimensionalità molto più solida (oltre che di un sorriso senz’altro più scaltro e malizioso).
In questa coppia di ritratti è riassunta tutta l’arte di Goya nonché la sua volontà di rimanere sempre coerente con sé stesso e con le proprie idee, senza edulcorare la realtà e senza scadere mai nel servilismo verso il Potere. Un’arte, dunque, che mira a mettere in luce tutti gli aspetti della realtà e della società, con un occhio sempre critico e disincantato. Questa libertà dell’arte è qualcosa che Goya si impegnerà sempre a sostenere, anche (e soprattutto) durante il suo periodo di docenza presso la Real Academia de Bellas Artes de San Fernando tanto che, in una relazione redatta nell’ottobre del 1792, egli ebbe a dire: “non ci sono regole in pittura (…) l’obbligo servile di far studiare o seguire a tutti la stessa strada è un grande impedimento per i giovani che professano quest’arte difficilissima”; e ancora, “non trovo mezzo più efficace per far progredire le Arti (…) che (…) lasciare correre in piena libertà il genio dei discepoli che desiderano impararle senza opprimerli”.
Libertà nell’arte, dunque, ma anche libertà di pensiero, come dimostra la vicinanza di Goya alle idee illuministe e libertarie di matrice francese, da lui condivise con un circolo di amici intellettuali e letterati dei quali ha realizzato i ritratti esposti nella mostra milanese: tra questi, solo per citarne alcuni, il ritratto di grande formato di Gaspar Melchor De Javellanos (1798), uno dei principali esponenti dell’Illuminismo in Spagna, e quello di José De Viargas y Ponce (1805), letterato e militare di marina.
Da questa visione illuminata della realtà Goya trae anche la sua critica alla corrida, elemento centrale della tradizione spagnola ma estremamente pericoloso e violento, come mostrato da diverse tele presenti in mostra e, naturalmente, dalla celebre serie incisoria della Tauromachia (1814-16). Di quest’ultima fa parte, per esempio, l’incisione intitolata Disgrazia avvenuta nell’arena di Madrid e morte dell’Alcade de Torrejón: si tratta di un’acquaforte che si richiama a un evento di cronaca effettivamente accaduto all’epoca di Goya (una corrida sfociata in tragedia provocando anche la morte del sindaco di Torrejón) e che prende di mira una pratica non solo sanguinosa, poiché porta alla morte inutile di un animale, ma anche potenzialmente pericolosa per coloro che la conducono e vi assistono.
La sensibilità sociale di Goya si manifesta anche in alcune tele che mostrano altre forme istituzionalizzate e accettate di violenza: quella verso gli ultimi, gli emarginati, gli ingiustamente perseguitati. È il caso di opere come Escena de Inquisición (1808-12), La casa de los locos (1808-12) che raffigura l’interno di un manicomio o El Tío Paquete (1819-20), una tela di piccolo formato su cui l’artista ha ritratto un mendicante cieco (noto appunto con il soprannome di Tío Paquete) che si aggirava all’epoca per le vie di Madrid: non un’immagine istituzionale o celebrativa, bensì il ritratto di un uomo che per tutti è sempre stato soltanto un mendicante cieco ma che noi oggi, in questa mostra, possiamo ammirare poco lontano da Carlo IV e Maria Luisa di Borbone.
Percorrendo le sale diviene dunque sempre più chiaro al visitatore che Goya, per tutta la sua vita, è sempre stato estremamente attento e recettivo – tra speranze e disillusioni – verso ciò che accadeva attorno a lui, in politica come nella vita quotidiana, trasferendolo nella sua arte. Dall’avversione per l’Ancien Régime alla delusione data dall’instaurarsi del Regime del Terrore, sino all’invasione napoleonica della Spagna e alla Guerra d’Indipendenza che ha martoriato la popolazione civile, Goya passa dall’entusiasmo per le novità rivoluzionarie all’amarezza disillusa per la piega presa dagli eventi. Ciò traspare naturalmente anche dalle sue opere che divengono sempre più cupe e dominate da atmosfere a metà tra l’inquietudine e l’angoscia. Come ricorda poi Domenico Piraina (direttore di Palazzo Reale) nel pannello posto in apertura alla mostra, nel corso della sua vita Goya affronta anche una malattia che lo porta a perdere l’udito, restando nella sordità quasi totale per circa metà della sua lunga vita. Durante questa fase di parziale isolamento sensoriale, Goya arriva a ripiegarsi sempre più su se stesso, conferendo alle proprie opere (tele o incisioni che fossero) una dimensione sempre più irrazionale, onirica e visionaria (in questo senso, dunque, Goya sembra porsi anche come anticipatore dell’inconscio).
Altro aspetto interessante della mostra milanese riguarda poi la scelta di inserire alcuni quadretti a olio appartenenti alla poco nota serie dei Juegos de niños (1777-85) tra cui, per esempio, Bambini che giocano alla corrida e Bambini che giocano ai soldati. La serie sembra anticipare di diversi anni le più note incisioni della Tauromachia e dei Disastri della Guerra (1810-14) recando però già in nuce quella condanna che diverrà in esse più esplicita e feroce alla violenza bellica e a quella (legittimata dall’aura di intoccabilità che la sua appartenenza a una plurisecolare tradizione le conferisce) della corrida. In queste piccole tele, apparentemente disimpegnate e amene con i loro soggetti di genere che coinvolgono degli infanti, tale violenza è solo simulata dai giochi ancora innocenti dei bambini che però, un giorno, diventeranno adulti e quelle battaglie cesseranno di essere solo un ludico passatempo.
Questa evoluzione della guerra da gioco infantile a mestiere degli adulti è il bersaglio della celebre serie di incisioni dei Disastri della Guerra che nella mostra è allestita nelle ultime sale, assieme alla serie dei Capricci (1797-99), e corredata delle matrici in rame, recentemente fatte restaurare (come spiegato nel pannello che introduce alle sale) dalla Real Academia de San Fernando tramite una procedura di pulitura proposta nel 2022 da Lucia Ghedin, dell’Istituto di Grafica di Roma. La serie dei Disastri è caratterizzata da uno stile di rappresentazione estremamente crudo e violento, come mostrato da ¡Grande Hazaña! Con Muertos!, nella quale i cadaveri smembrati di vittime della guerra sono appesi a una pianta come se fossero pezzi di carne macellata in esposizione al mercato, oppure Estragos de la guerra che rappresenta una scena di violenza perpetrata nei confronti di una famiglia di civili spagnoli e della loro abitazione durante la Guerra d’Indipendenza, segnata dalla resistenza della popolazione contro le truppe francesi: la casa è praticamente distrutta e i corpi dei suoi abitanti sono riversi a terra assieme a parte dell’arredamento (si intravede infatti una sedia sulla destra). Difficile non pensare, guardando questa piccola incisione, a Guernica (1937) e al modo con cui Pablo Picasso, più di un secolo dopo, ha scelto di rappresentare le distruzioni prodotte dal bombardamento nazifascista della città basca.
Lo stile crudo della serie dei Disastri della guerra estremizza quello altrettanto amaro ma più beffardo della precedente serie dei Capricci, abitata da creature sovrannaturali e demoniache nonché da grotteschi animali antropomorfi. Questo stile caricaturale prende di mira, in modo impietoso e trasversale, tutta la società spagnola, ironizzando sui suoi vizi, sulla sua corruzione e ipocrisia: è il caso, per esempio, della tavola ¿Si sabrá más el discípulo? che critica l’inefficacia di un sistema scolastico eccessivamente autoritario con i discenti e popolato da docenti incompetenti. Ai Capricci appartiene poi anche la celebre acquaforte intitolata Il sonno della ragione genera mostri, forse la più emblematica della serie, nella quale l’elemento dell’irrazionale e dell’onirico diventano protagonisti indiscussi, spianando la strada al Romanticismo e mostrando il ruolo che Goya (sempre per citare Piraina) ha avuto di “artista-soglia”, in quanto portavoce della transizione non solo tra due epoche (prima e dopo l’Ancien Régime) ma anche – e soprattutto – tra due modi di fare arte (un “Avanti Goya” e un “Dopo Goya”), come evidenziato in precedenza dalla già citata mostra del 2010.
Nella seconda metà della sua vita, insomma, la produzione artistica di Goya si fa sempre più beffarda e mordace, realizzando una vera e propria “Fenomenologia delle brutture umane” esattamente nel periodo in cui Hegel scriveva la sua “Fenomenologia dello Spirito”. Non a caso, scrive Charles Baudelaire sull’artista aragonese: “il gran merito di Goya consiste nel creare una verosimiglianza al mostruoso”. La forza visionaria e caricaturale delle figure nelle opere di Goya, infatti, non ci impedisce di intravedere comunque i bersagli (totalmente concreti e reali) a cui la sua invettiva si rivolge e, nonostante i duecento e più anni che ci separano da lui, continuiamo a percepirlo straordinariamente attuale e vicino a noi.
Goya piace. Goya colpisce. E ci riesce perché parla con sincerità dell’essere umano e dei suoi drammi, facendosi portatore della crisi della sua epoca (ma, d’altronde, quale epoca nella Storia dell’uomo è stata davvero priva di crisi?). Guerra, ipocrisia, corruzione, violenza verso coloro che sono percepiti come “diversi” o “pericolosi”: tutto questo non è presente solo nelle opere di Goya bensì continua ancora oggi a essere qualcosa di dolorosamente noto a tutti noi (è forse lapalissiano richiamarsi ai fatti di cronaca più recenti che invadono la televisione e internet).
Quella di Palazzo Reale è una mostra dall’allestimento molto didattico e non particolarmente audace ma che comunque non fallisce nel ribadire la forte carica innovativa che Goya ha avuto a suo tempo, il suo ruolo di apripista per l’arte contemporanea nonché la sua capacità di risultare attuale anche dopo due secoli, facendoci riflettere su noi stessi, in quanto parte di una società ma anche – soprattutto – in quanto esseri umani.
Dunque, visitando la mostra, conviene seguire il consiglio che il poeta francese Yves Bonnefoy (1923-2016) ci dà nel suo “Goya, les peintures noires” (2006): “Se è vero che il simile conosce il simile, per comprendere gli abissi di Goya non bisognerà forse prestare attenzione a quello che proviamo noi stesso quando osserviamo le sue opere?”
31 ottobre 2023 – 03 marzo 2024
Palazzo Reale, Milano
Piazza Duomo 12, 20122 Info: https://www.palazzorealemilano.it/mostre/la-ribellione-della-ragione