Se come scrive Germano Celant “uscire dal sistema significa rivoluzione”, cosa succede quando la rivoluzione diventa sistema? L’Arte Povera rimane per molti il paradigma anche internazionale dell’arte italiana, per altri invece qualcosa è già cambiato. Da Inside Art 128, Paolo Icaro interviene sul tema offrendo prospettive sull’arte italiana contemporanea.
Quale dovrebbe essere il ruolo dell’artista nella società?
Direi piuttosto qual è il ruolo dell’arte nella società, visto che l’artista è un individuo mentre l’arte un linguaggio. E allora la domanda da porsi dovrebbe essere: qual è il ruolo del linguaggio dell’arte nella nostra società? Ma, ancora, questo implica capire di che società stiamo parlando, se verticale oppure orizzontale (e la nostra spero che spiritualmente tenda a un’orizzontalità democratica). Perché dico questo? Il rapporto tra l’artista che realizza un’opera e la società che la riceve è fondamentale. L’arte è quel luogo di libertà del pensiero, dell’anima e in quel luogo ognuno cerca di comunicare qualche valore. Valori che sono diversi a seconda dell’individuo e della cultura in cui vive. Posso rispondere quindi a questa domanda in modo molto limitato alla mia persona, alla mia esperienza, alla mia generazione. L’artista è uno scienziato di ricerca. Il suo ruolo è sempre quello di proporre alla società un artefatto da osservare, ascoltare o ammirare. Questa azione è come un’annunciazione, non esclusivamente in senso religioso, è come una rivelazione.
Quanto l’Arte Povera è rimasta un punto di riferimento per le ricerche odierne?
Per capire quale sia la sua influenza bisogna innanzitutto tenere conto del fatto che alcuni artisti dell’Arte Povera sono vivi e operanti e continuano a produrre e a influenzare. Mi pare opportuno, comunque, estendere questa definizione oltre i confini italiani. La felice definizione di Germano Celant ha funzionato molto anche perché, contemporaneamente, avvenivano ricerche analoghe in paesi di tutto il mondo, dalla Germania, all’Inghilterra e agli Stati Uniti. Quello di Celant è stato un raggruppamento non tanto di tipo metodologico o estetico ma addirittura direi “climatico”. Mi rincresce fare un’analogia con il mondo sportivo ma Celant, come un mister, un bravo mister, è stato in grado di organizzare questo gruppo di artisti e farli diventare una squadra capace di competere con le altre. Ora che Germano se n’è andato e l’Arte Povera ha dato i frutti della sua ricerca, gli artisti continuano a lavorare e a rispondere al desiderio di tanti curatori, musei e fondazioni. C’è una comodità nel rivolgersi nel sistema dell’arte italiana a una squadra piuttosto che a un individuo o a individui separati. Senza togliere nessun merito a Celant, il suo genio, oltre che critico, è stato quello di rendere organici artisti che pur non condividevano esteticamente le stesse soluzioni linguistiche. Oggi la tendenza degli artisti è quella di isolarsi e non unirsi perché esteticamente si ha ben poco da condividere. Siamo degli autocrati, dei piccoli dei di un non mondo.
Giornalismo e critica hanno ancora un peso nel sistema artistico?
Intanto il termine “ critica” viene dal verbo greco “krino” e non necessariamente ha il significato un po’ sinistro di trovare difetti. Significa analizzare separare giudicare e il critico è un uomo e quindi la prima critica che si può fare a una critica è di avere o troppo filtro o di non averne abbastanza. Ciò che scrive il giornalista è più un annuncio, notizia, spesso è intrattenimento mentre la funzione importante del critico è di addentrarsi come un anatomopatologo, di non restare sulla pelle, come spesso facciamo tutti. Una volta c’era più attività dialettica, ricordo quella tra Francesco Arcangeli e Giulio Carlo Argan; la critica doveva portare avanti la consapevolezza dell’artista, cosa che oggi avviene sempre di meno. C’è una differenza fra giornalismo e critica, nei tempi di valutazione, di utilizzo e consumo. Ma se non c’è spessore intellettuale si esaurisce tutto in fretta, giornalmente.
Qual è oggi l’aspetto più rivoluzionario della pratica artistica?
L’arte per fortuna non è come la gramigna ma come l’erba che comunque cresce, anche tra le crepe dell’asfalto, nelle città. L’arte è un’esigenza umana inarrestabile che, attraverso alcuni individui chiamati artisti nella società, emerge. E prima o poi, se veramente propone dei contributi necessari alla storia dell’uomo, la storia dell’uomo li valorizza, li riassorbe. Questo è il modo dell’arte di essere rivoluzionaria. C’è un tipo di ricerca che invece approfitta di questa società mediatizzata per raggiungere il sensazionalismo, evidenziando in modo teatrale alcuni suoi aspetti esclamativi. È più vicina alla propaganda che scuote, sciocca, stupisce ma che si esaurisce come i fuochi d’artificio. Il destino però è nelle mani della paziente ricerca sotterranea che porta avanti il prima, la storia, da cui riceve, come in una staffetta ideale, il testimone e va avanti. È innovativa, evolutiva, dinamica e rivoluzionaria. Perché, come quando si impasta la pasta, occorre rimpastare: cioè, non solo fare ma anche disfare e rifare (e qui mi sono citato!).
Perché tranne rare eccezioni l’arte contemporanea italiana è invisibile all’estero?
La mia risposta è: come possiamo competere come paese dell’arte? Siamo riconosciuti, amati e (retoricamente?) visitati da turbe di turisti per l’arte classica antica ma poi abbiamo ministri che per l’arte contemporanea dicono addirittura che “con l’arte non si mangia.” E se in Italia c’è questa diffidenza nei confronti della ricerca degli artisti italiani immaginiamoci all’estero, dove c’è molta competizione, anche tanta invidia e un’organizzazione del mercato mondiale nelle mani degli Stati Uniti. Ogni volta che leggo “Art Forum” su 250 nomi di artisti, 190 sono americani, il resto stranieri e gli italiani sono forse 4 o 5. Dalla seconda guerra mondiale in poi, pur avendo sfornato proposte geniali nel mondo dell’arte, siamo stati penalizzati perché i nostri vari governi che si sono succeduti non hanno investito il loro potere nel potere della cultura. Quindi di cosa ci stupiamo?