Il 19 settembre il KunstRaum del Goethe-Institut di Roma ha aperto le sue porte al pubblico per presentare The Last Wall, la mostra di Aldo Runfola, il quale per l’occasione ha selezionato sette dei suoi lavori più significativi, che coprono un arco di tempo che va dal 1990 al 2022.
La mostra è una mini antologia dalla quale l’artista ha tratto due capitoli: il primo è il rapporto che intercorre tra l’opera, il pubblico e la critica e viceversa, «I lavori artistici – racconta Runfola – non solo vengono osservati, ma osservano a loro volta»; il secondo riguarda la posizione dell’artista nella società contemporanea. Tra le opere degli anni novanta, troviamo Mi piace – Non mi piace, sviluppata tra il 1990 e il 2003 e Catherine (il voto), del 1994. La prima è una riflessione sulla critica, in cui «si intrecciano ricordi di infanzia e letteratura», esprimendo il desiderio di liberarsi della critica, di «farla finita con il giudizio, perché ogni opera d’arte è già critica e giudizio, è già riuscita solo perché esiste, non ha bisogno di qualcuno che dica cosa ne pensa».

La seconda riprende lo stesso concetto ma evidenzia come un identico gesto si scinde in due e porta l’esempio del voto: in questo caso, nonostante si votino cose diverse, il movimento che si compie è uguale ma questo viene sempre dimenticato.
Termini tra loro opposti sono presenti anche in welcome – goodbye, due neon dai colori rispettivamente rosso e blu, che sottolineano la precarietà dell’artista, che non è solo una sventura ma una scelta: «Un artista deve essere precario». Inoltre, nell’opera i diversi piani dell’attualità si intrecciano con le riflessioni sull’artista e il suo pubblico. «Erano tempi in cui la figura dello spettatore acquisiva una rilevanza crescente per entrare a far parte del processo creativo, ma erano ancora vive nella memoria le immagini del bastimento che, colmo di albanesi, cercava un approdo lungo le coste italiane», racconta l’artista della sua opera realizzata per la galleria Rizzo nel 2003 a Venezia. I neon installati all’entrata e all’uscita della mostra, con le scritte welcome e goodbye, «suggerivano che tutti, nessuno escluso, sono da considerarsi degli “albanesi”».


Tra i lavori più recenti troviamo un video, Ssuperrationall-Ssupernnaturall, in cui l’artista stesso si riprende mentre realizza una performance: «Risale al periodo della pandemia da Covid-19 – racconta Runfola – in particolare alla follia medico-scientifica. In questa occasione mi sono chiesto: ma l’artista? È in buona salute? È convalescente? E se è si, di quale malanno? Allora mi sono travestito da medico, ho messo lo stetoscopio e ho fatto questa pantomima. Un concentrato di irrazionalità e razionalità, dove prendo misure, appunti, scrivo ricette, faccio palline e le lancio, realizzo aereoplanini. C’è una critica alla gestione pseudo scientifica della pandemia, ma anche agli artisti, mai silenzio fu più assordante da parte loro in quel periodo e quando non è stato assordante, perché qualcuno ha parlato, soprattutto le popstar, era meglio che non l’avessero fatto».

Chiaramente ispirata alla caduta del muro di Berlino, ma anche all’ultima apparizione in pubblico dei The Band e al titolo del film di Martin Scorsese The Last Waltz, «in quanto questo è l’ultimo giro valzer», The Last Wall, una lunga striscia in pittura spray e serigrafia, realizzata in collaborazione con i writers ticinesi BigTato e MrPlustik, è l’opera da cui l’esposizione prende il nome: «The Last Wall è steso orizzontalmente – spiega l’artista – poiché esprime il decadimento culturale dei nostri giorni. La cultura ha finito la sua missione nella società contemporanea, è crollata”. La citazione storica si riallaccia alla riflessione sempre presente nel lavoro di Runfola sul ruolo dell’artista nella società contemporanea e, viceversa, su quello che la società di massa assegna all’arte contemporanea e, di conseguenza, all’artista.
«La cultura ha esaurito la sua funzione, tutto è ovvio e quindi inutile – continua Runfola – Il problema è sia del trasmettitore che del ricevente, il quale è impermeabile a tutte le informazioni che riceve. E poi cultura vuol dire anche forme di vita, tutto un insieme di tecniche, di conoscenze, di abitudini. Se la gente non è in grado di improvvisare, di inventare, di crearsi i propri strumenti, non sono solo gli animali ad estinguersi, ma anche le forme di vita. Ed è tutto così triste».