Nuova svolta storica: echi di un sentimento collettivo e ritorno in strada

Nel numero 128 di Inside Art, Lucrezia Longobardi traccia una panoramica degli artisti degli anni Dieci del XXI secolo che ci stanno liberando da un’eredità ingombrante

Quando parliamo di critica contemporanea, ancora oggi, resta valido il pensiero formulato da Roberto Longhi in Proposte per una critica d’arte (1950), in cui, l’autore affermava che “l’opera d’arte è sempre un capolavoro squisitamente ‘relativo’ […] sempre in rapporto […] almeno con un’altra opera d’arte”. E che dal senso di questo rapporto – con l’opera e col mondo nelle sue relazioni sociali, economiche, religiose e politiche – nasce una risposta critica.

Ora, nel considerare la differenza che questo ultimo decennio trascorso ha avuto rispetto a tutti gli altri che hanno seguito il secondo dopoguerra, bisogna rinnovare l’esercizio di lettura del presente necessario a qualsiasi interpretazione, attraverso un lavorìo di intersezioni e sollecitazioni tra linee estetiche e presente storico. Due teorici come Germano Celant e Achille Bonito Oliva, assieme agli artisti che hanno preso parte agli scenari di quegli anni, hanno, forse, contribuito più di altri a sviluppare un processo di definizione e problematizzazione dell’esistente che ha comportato, per le generazioni artistiche a venire, un bagaglio ereditario a dir poco ingombrante e di difficile gestione.

Carlo e Fabio Ingrassia, The Mountain, 2016, courtesy the artists

L’Arte Povera si è imposta per decenni quasi più come un marchio italiano che non come un movimento intellettuale e la Transavanguardia ha, con una prospettiva più ridotta, seguito le sue orme. La prima si affermava in una società in rivolta, esplosa nelle contestazioni agli apparati di potere dominanti e alle loro ideologie, rispecchiando nelle sue linee estetiche un ritorno all’essenzialità che partiva dalla scelta dei materiali.

La seconda, emersa a partire dalla metà degli anni ’70, pone le sue basi sulla scia della crisi economica che caratterizzò questo decennio e che ridimensionò l’ottimismo produttivo e culturale in Italia, affiancandosi alle correnti neoespressioniste delle altre esperienze americane ed europee, che però, nel nostro paese, andando a spegnere i radicalismi poveristi, marcavano maggiormente uno spirito di ritorno alla pittura come eco di un ciclico ritorno all’ordine.

Allo stesso modo, fortemente connesse al contesto socio-politico, sono anche le pagine di storia dell’arte afferenti agli anni Novanta e Duemila, quelli dell’Italia berlusconiana, da cui sono emerse principalmente tre figure accomunate da un linguaggio derivato dalle rivoluzioni del mondo pubblicitario divenuto un tutt’uno, allora, col mondo politico. Maurizio Cattelan, Vanessa Beecroft e Francesco Vezzoli, hanno avuto, forse, per questo, un vantaggio impareggiabile rispetto ad altri colleghi dalle pur solidissime poetiche, appartenenti alla medesima generazione.

Roberto Cuoghi with matali crasset*, Imitatio Christi, 2017-2022, installation view, Fridericianum, Kassel 2022-2023, photo Alessandra Sofia

La fine del ventennio del Cavaliere ha poi coinciso con il risveglio da una specie di allucinazione, una sbornia alla fine della quale si ricercano gli occhiali sul comodino per potersi riorientare, per rendersi conto di dove siamo, e soprattutto, come ci siamo finiti. È così che l’arte di fine anni Duemila inizierà a guardarsi indietro, a ricucire una storia da dove si era iniziato a dimenticare, ovvero dall’assunzione dei primi stupefacenti anni ’80. Tornano allora, nel lavoro di Elisabetta Benassi, Rossella Biscotti, Francesco Arena, Flavio Favelli, i fantasmi del ’77, del terrorismo, di Moro, in un passaggio necessario quanto intimo della coscienza culturale di questo paese che – forse per questo – fatica a trovare consonanze con il resto della scena internazionale.

Nel 2016, in un articolo intitolato Il Neorealismo visivo, Gian Maria Tosatti dà una prima lettura di una generazione che sembra aver fatto i conti col proprio passato e può provare a presentarsi sulla scena internazionale guardando a un futuro, pur incerto e minaccioso. Il titolo di questo breve “non-manifesto”, sembra alludere a un’altra fase ciclica della storia, quella del ritorno alla strada, come spazio della riappropriazione culturale dopo una fase di affabulazione politica e di ubriacatura delle coscienze civili (cioè quanto avvenuto, con le dovute differenze, nei due “ventenni” del Novecento italiano).

Vanessa Beecroft, VB16.009.ALI, performance Deitch Projects, New York, 1996, courtesy Galleria Lia Rumma, Milano | Napoli

Come allora Rossellini, De Sica, Visconti e gli altri protagonisti del movimento sviluppatosi negli anni Quaranta, anche gli artisti nati tra il 1970 e il 1985 (tra questi Margherita Moscardini, Eugenio Tibaldi, Andrea Mastrovito, Lara Favaretto, Giorgio Andreotta Calò, Marinella Senatore, Giuseppe Stampone e lo stesso Tosatti) e giunti alla piena maturità nel corso degli anni Dieci del XXI secolo, fanno della strada e dello spazio pubblico il centro delle proprie ricerche, finendo così per riallacciarsi a un mondo in protesta, che nelle strade e nelle piazze di ogni latitudine porta la sua urgenza di ridiscussione di un passato storico/coloniale scomodo o di un futuro che chiede garanzie di sostenibilità.

Come ogni movimento non codificato a priori, anche in questo caso, ci troviamo di fronte a una scena che comprende figure non allineate, ma neppure del tutto aliene. Figure in cui l’eco di un sentimento collettivo torna come un demone a esigere il suo tributo anche da coloro che come Arcangelo Sassolino o Roberto Cuoghi si sono trovati sempre distanti da canoni condivisi e che pure, quasi inconsciamente, per quanto riguarda l’artista modenese, nell’ultima antologica al Fridericianum di Kassel, rovescia tutto il suo catalogo in un’ipotetica e allucinatoria strada di campagna, percorsa da macchine agricole che ripuliscono tutto, portano via i resti di quel che è stato. Ed è forse, questo, già il segnale per fare spazio a un nuovo passaggio storico, l’inizio di un nuovo decennio, gli anni Venti della post-rivoluzione digitale, forieri di una tremula ricerca esistenziale che inizia a baluginare.

Eugenio Tibaldi, Atopos, 2023, The Drawing Hall, courtesy the artist and The Drawing Hall, Grassobbio (BG) photo Walter Carrera

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