Aveva quella rara dolcezza che si unisce alla determinazione. Oltre che un grande artista, amatissimo dai suoi studenti di Brera (degli anni allo Iuav so di meno), Alberto Garutti era una persona davvero speciale. Gentile, sì, molto. Ma soprattutto in ascolto. Insieme a lui non eri mai una qualunque, se gli stavi accanto, eri la persona che lui ascoltava, sorprendendoti per quell’interesse che manifestava di conoscerti. Eri importante per lui, che sapeva la possibile magia dell’incontro: «Se io ora ti tocco semplicemente un braccio, tutto può cambiare tra me e te», mi disse una volta tanti anni fa, durante un’edizione di Arte all’Arte (il mitico gran tour toscano fatto dagli allora tre ragazzi della Continua) che lo vedeva tra gli artisti coinvolti.

La relazione, sì, la relazione è stata l’alfa e l’omega della ricerca artistica di Garutti. La relazione tra l’artista e il pubblico, la relazione tra i fruitori medesimi (“i ragazzi e le ragazze che si sono innamorati”), la relazione con se stessi (“i passi che mi hanno portato fino qui”). La relazione tra l’artista e il suo collezionista (la serie Orizzonti, linea immaginifica che univa e sosteneva il suo lavoro con l’affetto dei committenti). La relazione tra gli accadimenti seminali della vita (l’attesa e la nascita annunciata con una luce che si accende). A ripercorrere questa antologia di opere, di pensieri e di parole viene quasi da chiedersi se Garutti sia stato più poeta che artista.
Ma la sua arte si nutriva di pensieri senz’altro poetici, dolci, ma anche molto strutturati. Convinzioni che presuppongono una precisa scelta di campo, specie in un’epoca, come la nostra, in cui l’arte è una pratica sistemica che ruota per lo più intorno al denaro e al potere. Lui raccontava che molte cose erano cambiate con un intervento in un piccolo paese in provincia di Pisa: Peccioli. Penso che non siamo in molti ad aver visto quel lavoro, realizzato, se non sbaglio, al Teatro del paese per volontà dell’allora molto intraprendente sindaco – Macelloni, mi pare si chiamasse – che nel giro di qualche anno aveva chiamato a lavorare a Peccioli: Nagasawa, Vittorio Corsini, Vittorio Messina, Umberto Cavenago e, appunto, Garutti (temo di dimenticarne qualcuno, ma sono passati quasi trent’anni) trasformando quell’anonimo borgo pisano in un centro pulsante di Arte Pubblica.
Alberto raccontava che quell’intervento, risultato di incontri con gli abitanti di Peccioli per capire ciò che si aspettavano da un artista, gli aveva fatto maturare una diversa «metodologia di approccio all’opera, al confronto con lo spazio pubblico e con lo stesso sistema dell’arte» fino a «incarnare la sua pratica nell’approccio».

Incarnare, che bel verbo! nel cui uso colgo quella fermezza nelle scelte che non ammette mediazioni e che restituisce un artista soavemente engagé, quale lui era. Alberto era lì, in quella particolare qualità che dà valore a quell’espressione, a volte abusata, di Arte Pubblica. Che per lui non voleva solo dire lavorare nello spazio pubblico, mettendo al primo posto il confronto con i destinatari dei suoi interventi, ma significava colorare quegli stessi interventi di affettività, di sentimenti, di sguardi, di storie personali, di parole sussurrate ma potenti.
Via via i suoi lavori sono cresciuti da quel solco iniziale di Peccioli diventando sempre più sensibili e anche un po’ festosi, con un tocco di gioco, come le ventitrè trombe sotto piazza Gae Aulenti, a Milano, che collegano (di nuovo una relazione) suoni e rumori della città o la luce che si accende quando nasce un bimbo.

Solo una volta ho avuto a che fare con Alberto per lavoro. Ad ArtVerona mi ero inventata “Free stage”: giovani artisti senza galleria presentati da un artista della generazione precedente. Nel 2019 avevo chiesto a lui di fare da tutor. L’anno prima di Garutti, Adrian Paci me ne aveva proposti tre, l’anno ancora prima Puppi, Pietroniro e Lim ne avevano portati tre. Alberto mi dice: «Io ne ho dieci. Scusa, ma non riesco a sceglierne tre» Potevo dirgli di no? Non fu facile convincere l’azienda a dare questi dieci, sia pure piccoli, spazi gratis per le giovani promesse care a Garutti. Ma ci riuscimmo.
Che bel dono, ancora una volta!
Grazie Alberto, che il viaggio ti sia lieve.
