Re:humanism 3: scintille e attriti dell’ineffabile

Al WEGIL di Roma, la mostra della terza edizione del premio indaga come sempre il rapporto fra AI e arte contemporanea, nell’ambito di uno sviluppo sostenibile e inclusivo

«La realtà profetica è un regno multidimensionale,
dove solo una parte di ciò che ci compone e ci circonda
rientra nel campo del nominabile e del visibile,
mentre la maggior parte rimane al di là della portata
di ogni forma di cattura linguistica, nell’eterna ineffabilità».

Federico Campagna

Essere ineffabile come dice Federico Campagna significa essere irriducibile alla forza del linguaggio, scivolando via dalle definizioni delle categorizzazioni imposte. Difendere la dignità dell’aspetto non calcolabile dell’esistente, significa quindi permettere al mondo di emergere, cambiando le possibilità di immaginazione. La citazione in apertura, campeggia sulla parete bianca della mostra di Re:humanism – l’ormai noto premio volto a indagare i rapporti tra intelligenza artificiale e arte contemporanea, gli utilizzi del medium e le sue implicazioni culturali, sociali ed estetiche – aperta al pubblico fino al 18 giugno al WEGIL di Roma.

Sparks and Frictions. Scintille e attriti fanno da perno alla terza edizione del premio che quest’anno pone sul campo di riflessione la creazione di nuovi immaginari nell’ambito di uno sviluppo sostenibile e inclusivo, mantenendo uno sguardo critico davanti all’ingenuo e diffuso fanatismo tecnocratico. La tecnologia ha evidentemente plasmato il modo in cui vediamo le cose oggi e se, come dice Campagna, per “cambiare il nostro mondo, dobbiamo prima cambiare l’idea di realtà che lo definisce”, Re:humanism si inserisce perfettamente nell’esercizio di diffondere, attraverso il pensiero degli artisti, nuove prospettive sul rapporto che abbiamo con la tecnologia, per provare a riscrivere le regole del gioco della realtà e acquisire anche più consapevolezza verso i nuovi dispositivi. La mostra curata da Daniela Cotimbo, presidente dell’associazione culturale Re:humanism e promossa da Alan Advantage e Frontiere, affronta con i dieci finalisti numerosi filoni tematici: il nostro rapporto con gli algoritmi e l’esperienza virtuale che ne deriva, l’esplorazione dello spazio fisico e digitale, la capacità creativa delle macchine, o anche la costruzione di nuovi rituali contemporanei, consolidando l’idea che l’arte contemporanea possa contribuire, insieme alla tecnologia, a ridisegnare, con quell’attitudine magica di cui parla Campagna, nuove narrazioni sul futuro.  

Il primo premio è stato assegnato all’artista inglese Joey Holder che riscopre la criptozoologia, una pseudoscienza che recupera storie respinte dalla comunità scientifica relative a creature leggendarie, inventate o addirittura mai scoperte. Muovendosi sul confine tra mito e scienza, l’opera Zoophyte presenta un albero filogenetico del mondo, che collega tutte le creature fantastiche che si sarebbero potute evolvere a partire da una frequenza sonora e da un antenato comune, insieme ad altri organismi realmente esistenti di cui però la scienza sa ancora molto poco. Mappe di dati e diagrammi analitici si attivano davanti allo spettatore, quasi come dei tarocchi, creando una mappa di creature “off-limits”.

Come nelle precedenti edizioni, anche in questa, gli artisti guardano all’impatto ambientale che ha avuto il progresso tecnologico sul pianeta e le conseguenze pericolose che stiamo già sperimentando. L’opera di Robertina Šebjanič, ad esempio, Echinoidea Future – Adriatic Sensing, affronta le attuali condizioni bio-geologiche e morfologiche dei ricci di mare, devastati dall’azione dei rifiuti liquidi nell’acqua marina. Con una restituzione formale estremamente elegante, le sculture in vetro mostrano ciò che accade al riccio di mare allo stato embrionale quando viene intaccato da saponi, olii e altri agenti inquinanti che vengono utilizzati nella vita quotidiana, e al tempo stesso, l’enorme capacità di adattamento e resilienza di questa specie. Anche l’installazione Ciò che resta, di Pier Alfeo, indaga l’inquinamento degli oceani ma dal punto di vista acustico. In particolare, la condizione di pericolo che vivono i cetacei, disorientati dal rumore delle navi di scarico che interferiscono con i loro segnali di ecolocalizzazione, causandoli numerose ferite. Lo schermo, piantato in un cumulo di sale, mostra una serie di immagini di cicatrici generate da un’AI a partire da un data-set misto di immagini, di umani e di cetacei, che pongono di nuovo davanti all’urgenza di rinegoziare il ruolo che abbiamo deciso di avere in questa storia.

In un’ottica speculativa di ridefinizione della narrazione del progresso scientifico, opera il lavoro di Alice Bucknell (terzo posto) The Martian Word for World is Mother. Tre schermi immersi in un terreno di sabbia rossa mostrano allo spettatore una trilogia di possibili scenari in cui l’uomo arriva alla terraformazione di Marte. Unendo la strategia della science fiction, del 3D worldbuilding e del linguaggio dell’intelligenza artificiale, l’artista sviluppa con il controversissimo ChatGPT tre filoni narrativi in cui vediamo una diversa concezione del futuro sul Pianeta Rosso e il relativo sfruttamento delle sue risorse, provando ad allontanarsi, almeno in un’opzione del racconto, dalla visione antropocentrica che tutti ci aspettiamo. Anche Mythmachine di Sahej Rahal prova a scardinare un sistema di potere rigido fondato sulle caste come quello indiano, ma basato su precetti mitici e religiosi. Riflettendo sulle condizioni sociali e politiche del mondo contemporaneo, l’artista elabora una possibile via di fuga, dando vita a un mondo virtuale in cui creature polimorfe interagiscono nel nostro spazio fisico, catturando i feedback audio che generano un canto incomputabile ed evocando un teatro cibernetico dove una nuova convivenza interspecie è possibile.

Il Premio Emergenti di questa terza edizione è stato vinto, invece, dall’artista cinese Yue Huang con l’installazione multi-canale Artificial Life: One Leg at a Time pensata per decostruire l’immaginario fantascientifico e iper performante dell’AI, presentandone invece una versione goffa e divertente, in cui attraverso una serie infinita di errori, un atleta virtuale impara a correre. Utilizzando un sistema di simulazione, la macchina apprende attraverso un processo di decision-making ricorsivo che comporta, senza escluderlo, anzi, ponendolo come solo elemento “didattico”, il fallimento, sollevando corrispondenze interessanti tra IA e vita biologica.

Il lato più “fisico” della mostra, quello dove la tecnologia dell’intelligenza artificiale è meno esposta sul piano formale, nasce dalla collaborazione tra Riccardo Giacconi, una rete neurale artificiale e la Compagnia Marionettistica Carlo Colla & Figli, tra le più antiche compagnie di teatro di figura al mondo. In Monologo, l’opera vincitrice del secondo posto del premio, Giacconi lavora con due tecnologie di animazione legate all’imitazione dell’antropomorfo: quella arcaica della marionetta e quella contemporanea dell’AI che ha progettato costumi, scenografie, materiale d’archivio e marionette stesse, poi realizzati con le tecniche tradizionali della Compagnia, e che vediamo esposti in mostra, quasi come reperti del perturbante. 

Perturbante che ritorna nell’opera di Mara Oscar Cassiani, vincitrice della Menzione Speciale dedicata a Salvatore Iaconesi, Ai Love, Ghosts and Uncanny Valleys <3. I broke up with my Ai and will never download them again, che sfrutta il concetto di Uncanny Valley per riflettere sulla natura delle relazioni che nascono tra utenti e intelligenze artificiali in rete. Su un tappeto di morbidi cuori, edera finta e compagne ideali, l’artista ribalta lo schema di costruzione del partner perfetto in cui milioni di utenti si rifugiano, per svelare ironicamente ghosting, abuso emotivo e digitale, stalking, truffe finanziarie e tutti i rischi in cui, alla fine, cadono vittime anche le stesse AI, sbattute nel dimenticatoio con un click. E sul modo relazionale di abitare la rete riflette anche l’opera di Federica Di PietrantonioFARMING: un cortometraggio machinima che raccoglie le esperienze di utenti su piattaforme sociali/virtuali e videogiochi. Un avatar vaga nel mondo sconfinato del virtuale mentre si leggono e si ascoltano le storie di profondo isolamento e discriminazione sociale che vivono hikikomori, neet e gold farmer. Il video svela la disillusione del virtuale che promette avventure per campi sterminati in un mare di solitudine.

A metà tra uno studio dentistico e il laboratorio di una cartomante, Bite Off More Than You Can Chew, di Ginevra Petrozzi chiude il percorso espositivo riflettendo sull’instancabile necessità umana di credere di poter controllare il futuro e sul significato di superstizione. Sulla scia degli antichi sistemi di divinazione somatica, gli studi fisiognomici di Cesare Lombroso e i software di ultima generazione per il riconoscimento facciale, l’artista realizza meticolosamente un sistema di divinazione studiato sullo schema delle mascherine ortodontiche indossate – e quelle ancora da indossare – che porterà, collegando lo spostamento dei denti a vita accaduta, a predire il proprio destino.

In occasione del finissage del 18 giugno, la mostra ospita la performance di danza contemporanea Where no body is, pensata appositamente per gli spazi della mostra da Lorenzo Aprà e Martina Serra con la partecipazione di Silvia Bologna. Il concept della performance è quello di abitare lo spazio multidimensionale, latente e virtuale, delle opere esposte. Un tentativo di esplorare, oltre lo schermo, le possibili relazioni tra lo spazio fisico e quello digitale, fuori dai confini del conosciuto.

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