Il Museo delle Civiltà di Roma? È queer!

Un museo che rischia, che sa parlare al pubblico con intelligenza e un pizzico di provocazione, che guarda al futuro per rivisitare il passato

Un museo, quando deve ristrutturarsi dal punto di vista architettonico o per riallestire le proprie collezioni, generalmente chiude. Tutto, o almeno in parte. Esattamente come accade per un ufficio, una casa che da quel momento ospita operai, anziché le persone che prima vi abitavano.

Il Museo delle Civiltà di Roma, nato dalla fusione (ma soprattutto dal ripensamento) del Museo Pigorini, del Museo delle Arti e Tradizioni Popolari, del Museo d’Arte Orientale e del Museo dell’alto Medioevo, pur riallestendo le sue collezioni, non chiude. Anzi, le mostra, le mette in scena. Prendendo a prestito una modalità propria dell’arte contemporanea, e di molta cultura contemporanea, penso al teatro e alla musica d’avanguardia, che non nascondono le prove o l’allestimento, ma ne fanno, anzi, una componente di scena e del loro racconto. Del resto il direttore del (neo)Museo delle Civiltà è un contemporaneista – Andrea Viliani – che in precedenza è stato al vertice di due musei d’arte contemporanea: il Madre di Napoli e la Galleria Civica di Trento. 

ph. Giorgio Benni

Ma il Museo delle Civiltà, situato all’Eur, non solo non chiude, ma gioca anche con il suo nome cambiandolo in Museo delle Opacità. Parola che assume un duplice significato: si riferisce all’oblio che ha censurato la nostra epoca coloniale ed evoca l’opacità teorizzata dal poeta e saggista Édouard Glissant, secondo il quale è diritto di ogni individuo non assoggettare la propria identità a criteri quali “accettazione” o “comprensione”, rivendicando la pratica della condivisione che permette di sviluppare identità specifiche, generate autonomamente.

E c’è dell’altro. Il Museo delle Civiltà riallestisce le proprie collezioni, che sono archeologiche, risalenti alle prime espressioni della creatività e del pensiero umani (non è più corretto parlare di “preistoria”, ma di una storia diversa da quella attuale, non per questo qualitativamente inferiore), affiancandole con progetti realizzati da artisti contemporanei. Il passato, quindi, è riletto attraverso lo sguardo di artisti di oggi, come Theo Eshetu e Adelita Husni-Bey presenti con due nuove installazioni, che problematizzano alcuni temi e tensioni del presente, come i flussi migratori, la decolonizzazione riferita al passato coloniale italiano spesso taciuto e rubricato come debole e indolore – il motto “italiani brava gente”, per capirci – restituendoli attraverso opere che dialogano con il ricco patrimonio del museo. Il passato, dunque, rivisitato dal presente e viceversa, in un movimento concettuale aperto e costante. Parallelamente, il museo stesso che continua a mostrarsi anche quando ha i suoi lavori in corso. E che cambia nome.

Un museo attraversato da dinamiche anomale, per certi versi distopiche, sicuramente innovative. E, per questo, coinvolgenti.

Forse non ci sarà un giudizio unanime su come il Museo delle Civiltà affronta il passato. Ma è difficile non riconoscere in questa impostazione un intento sperimentale, un rischio assunto dalla direzione e dai suoi collaboratori per fare un museo diverso che sappia parlare al pubblico di oggi con intelligenza e un pizzico di provocazione, anche questa patrimonio della cultura contemporanea.

ph. Giorgio Benni

Basta? No. Pochi giorni fa, quando si inaugurava la bella mostra sull’artista mozambicana Bertina Lopes, tra le altre proposte abbiamo visto il progetto dell’artista, attivista e femminista italo-marocchina Wissal Houbabi, vincitrice della residenza per il 2022, a cura di Matteo Lucchetti, curator at large del museo. Insieme a diversi collaboratori, Houbabi sta pensato una sorta di macchina del tempo, ideando un museo del futuro datato 2152, il Phonomuseum, in cui le lingue attualmente parlate in Africa, come anche a Roma dai tanti emigrati che vivono in questa città, spariranno, inghiottite dall’inglese e da poche altre lingue vincenti. Insieme alle lingue, Houbabi e il suo team hanno osservato altre pratiche in uso oggi, ma tutto, sempre, proiettato nel 2152, quindi nella cornice di un museo ricco di passato, ma che prova ad immaginare il futuro.

Anche qui assistiamo a un movimento anomalo, distopico: uno sguardo sul futuro per comprendere e rivisitare il passato, diversamente da quanto accade in genere nella nostra epoca schiacciata sul presente.   

Dinamica che fa del Museo delle Civiltà un museo felicemente “queer”.