Quando il politically correct diventa manierismo

L’ipocrisia della società occidentale ancora lontana da una lettura obiettiva dell’arte afroamericana. L'articolo di Adriana Polveroni su Inside Art 127

«Mi piacerebbe prima o poi dipingere una stella, una cosa così, anche banale. E invece no, il gallerista mi chiede di dipingere neri. Donne e uomini neri dentro casa, seduti sul divano, al bagno – hai notato quanti quadri ci sono con neri al bagno? – neri che stanno coi figli o da soli. Fondamentale è che siano neri. Altrimenti il gallerista non mi espone e non mi vende».
Non è una boutade, è un racconto vero di un artista afroamericano che vive a New York di cui non facciamo il nome per ovvie ragioni. La storia sarebbe ridicola, se non fosse drammaticamente vera. L’esplosione sul mercato dell’arte che ha per soggetto persone nere, fatta da artisti neri, sta producendo delle distorsioni sia in termini del mercato stesso, con quotazioni che schizzano in alto per poi, forse, rintracciare clamorosamente, ma anche per la qualità della produzione artistica.
Per fortuna non tutto ciò che si vede di black oggi è pittura fatta per essere rapidamente venduta, ci sono artisti, anzi soprattutto artiste, alcune delle quali abbiamo visto all’ultima Biennale di Venezia, che fanno un lavoro originale e innovativo.

È il caso di Laetitia Ky, presente nel padiglione della Costa d’Avorio, con i suoi capelli che diventano sculture, della camerunense Angèle Etoundi Essamba, autrice di foto di un bianco e nero saturo e ammaliante; di Acaye Kerunen, artista, scrittrice e attivista che a Venezia rappresentava l’Uganda; della giovanissima sudafricana Bronwyn Katz presentata nella mostra della curatrice Cecilia Alemani e che lavora con materiali di recupero: materassi, fili di ferro, spazzole e lamiere ondulate creando delle sofisticate e quasi aeree sculture. Oltre a loro, tra le figure che più recentemente si sono imposte all’attenzione internazionale, ricordiamo l’incisiva performer sudafricana Buhlebezwe Siwani che lavora anche con la fotografia e l’installazione, mettendo in scena quasi sempre il suo corpo; e l’ancora più politicizzata Gabrielle Goliath, artista multimediale, anche lei sudafricana, che lavora su tematiche di gender – donne e queer – e tematiche razziali.
Ma l’invasione di mercato di quelle pitture “total black” che, come dice l’artista citato all’inizio, sono imposte dai galleristi è un fatto incontrovertibile che dovrebbe far riflettere anche da altri punti di vista. E poi, guarda caso, come si è visto proprio alla Biennale di Venezia, a parte qualche eccezione maschile, le nuove proposte black sono costituite quasi sempre da donne. Mi permetto qualche altro racconto autobiografico che racconta bene la situazione.

Siamo di nuovo a New York, città dove il fenomeno è più evidente, ma che soprattutto precorre tempi, modalità e sviluppi che poi si ripercuotono nel mondo. Qualche anno fa, una mia cara amica artista newyorkese mi disse – e in quel momento mi sembrò un po’ troppo arrabbiata, ma ora mi sembra lungimirante – che, a New York, se non eri come minimo ebrea (e lei lo è, peraltro), ma soprattutto nera e possibilmente lesbica, non andavi da nessuna parte. Quello che il mondodell’arte celebra come avanguardia e a cui si guarda come indicazione di massima proveniente da quell’ambiente smart che è la scena artistica newyokese – dalle supergallerie di Chelsea agli spazi fighetti e no profit di Bushwick – può essere anche letto come l’espressione di un conformismo alquanto radicato. Sì, il politicamente corretto che spesso fa rima con l’artisticamente noioso.
Ci vado giù pesante? Ne sono consapevole. Ma, sono anni che l’arte Made in USA propone storie o frammenti di emarginazione, preferibilmente di donne lesbiche, e soprattutto tanta arte nera che, diciamo, non pare essere sempre folgorante. Con la Gran Bretagna che segue a ruota.

Bronwyn Katz, KÃXU-DA (I) (BECOME LOST US), 2019. Courtesy Peres Projects

L’ultima volta che sono stata a Londra è stato un anno prima della pandemia, in occasione dell’edizione 2019 di Frieze. E già allora il mercato si era resettato a favore dell’arte black, proponendo non solo più Kara Walker o Zanele Muholi, reduce quest’ultima dagli ottimi (e doverosi) riconoscimenti post Biennale 2019, ma tirando fuori quadri su quadri con soggetti neri fatti da artisti neri. Un anno prima, a New York, mi aveva molto colpito la mostra di Adrian Piper al MoMA, a mio parere pedante e alquanto noiosa. Irritante. Per sostenere la causa della blackness e soprattutto la denuncia della discriminazione operata ai danni degli afroamericani – Piper è black per meno di un 20 percento, tanto da sembrare bianca – dopo i primi lavori degli anni Settanta sicuramente più incisivi e più veri, ha cominciato a insistere sugli stessi temi con un certo manierismo e una discreta forzatura. La protesta, la rivendicazione sono diventate “d’ordinanza”. Di maniera, appunto.

Perdendo quel mordente che ne faceva un lavoro da vedere e da capire e assumendo intenzioni catechizzanti che, per me, è quanto di peggiore possa fare l’arte: diventare prescrittiva. Rinunciando alla libertà che dovrebbe incarnare. So che dopo il movimento Black Lives Matter e l’ultimo assassinio del 29enne afromaricano Tyre Nichols compiuto lo scorso 7 gennaio da cinque poliziotti americani (peraltro neri come la vittima) affermazioni del genere possono suonare fortemente offensive e “di destra” e so che Adrian Piper è un’artista acclamata e apprezzata anche dal mercato. Ma possiamo dire che la blackness, se diventa solo un ammiccante rituale, è noiosa e inutile, lontana dagli obiettivi di consapevolezza che si prefigge? Che il lavoro di Teresa Margolles parla con molta più forza e drammaticità di donne di quanto non facciano le liturgie di Adrian Piper o i disegni (ormai prevedibili) di Kara Walker? E che la denuncia del razzismo è più efficace in Five cars stud di Edward Kienholz o in un film come Django di Tarantino piuttosto che in una delle tante tele esposte in una delle tante fiere degli ultimi anni? Il correre ai rimedi dopo anni di cecità riguardo la realtà e la cultura nere, dando vita all’inizio di un rituale in uso nel nostro tempo: “chiedere scusa” e poi assumendo la posizione della “restituzione” che, in questo caso, significa fare spazio a tutto ciò che è stato cancellato, rimosso e depredato, purtroppo ha avuto sviluppi non sempre virtuosi, appoggiandosi anche a quella sponda teorica che è la rivendicazione della blackness, che ha tutt’altre e legittime motivazioni storiche (non sta a me dirlo) e legate all’attuale temperie culturale e alla realtà geopolitica di oggi (e qui ci permettiamo di non essere sempre e incondizionatamente d’accordo).

Ma la chiave di volta sta proprio nel mercato, perché l’Africa è la nuova frontiera e l’arte black, che guarda caso è per lo più proposta da galleristi bianchi, condensa molti elementi che soddisfano le esigenze del mercato: è merce abbastanza nuova, comprensibile, che ben si confà a quel puritanesimo che sottotraccia attraversa la cultura americana con un tocco left. Insomma, può funzionare. E prova ne è la nascita di tante fiere proprio in Africa: da Marrakech a Cape Town, passando per Lagos, oltre alle fiere 1-54 Contemporary African Art Fair a Londra e AKKA a Parigi. Sarà un trend che ci porteremo dietro per alcuni anni. E poi? Chissà, poi sarà la volta di qualcos’altro, possibilmente forte di una sponda teorica come la blackness.

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