Dopo variegate e molteplici esperienze in collettiva Giulio Bensasson torna con una nuova personale dal ruolo riassuntivo della stadio attuale della sua ricerca. La cornice della nuova impresa è Divario, giovane spazio romano aperto nel 2019 da Filippo Tranquilli.
L’indagine di Bensasson ha ormai sedimentato le sue radici nella missione di annullamento del memento mori. La predestinazione umana al disfacimento materiale è stata da sempre oggetto di morbosa curiosità per l’artista romano, classe 1990: l’azione prende sempre piede dal riconoscimento dei meccanismi psicotici che portano alla necessità della società occidentale di poter porre il proprio controllo su ogni genere di evento. La destrutturazione di tale bisogno spinge Bensasson ad attivare meccanismi che rifuggono il suo governo, lasciando in suo pugno esclusivamente la potenziale vigilanza. Nei lavori dell’artista nulla è guidato in maniera razionale, se non dalle leggi che superano i concetti spazio-temporali e i parametri misurabili di cui l’umanità ha permeato il proprio pensiero a partire dalla tardo cinquecentesca rivoluzione scientifica copernicana.

La decomposizione è lo strumento da lui spesso utilizzato per dare luogo al compimento di un’astrazione perfetta, mai realmente raggiungibile attraverso il filtro della ragione, conscia o inconscia. Per raggiungere la reale intangibilità della forma è necessario rivolgersi a intelligenze estranee, spesso oggetto di repulsione per l’uomo, ma ben più antiche dell’umanità stessa: i funghi e i batteri sono entità complesse, la loro natura dominatrice li rende esplicita rappresentazione di un concetto di natura tutt’altro che passivo e imbrigliabile.
Nella ricerca di Bensasson, dotata di una linea estetica attraente e magnetica, fuoriescono gli spiragli di una luce disincantata, pronta a depistare l’essere umano dal suo convincimento di totale compiutezza nell’era del progresso. Nell’incontrollabile quindi si nasconde la vera e unica risposta ai bisogni di un mondo in decadenza, vittima dei modelli economici e sociali, prima comunisti e poi capitalisti, che da un secolo regolano l’agire umano sul pianeta. L’eros e il thanatos sono tra le poche energie che possono dare equilibrio all’esigenza terrena di immanenza, rivitalizzando ed esaurendo allo stesso tempo l’individuo, particella inerme scossa dall’inarrestabile fluire del tempo.

Quale esigenza ti ha portato a questa nuova mostra personale e quali sono state le fasi preliminari che hanno preceduto la presentazione dei nuovi lavori?
La mia esigenza era di continuare il discorso iniziato con la mia prima personale, Losing Control, presentata nel 2021 al Pastificio Cerere. Volevo rafforzare la mia ricerca e da questo è nata la scelta di presentare il lavoro inedito Come Funghi. Questo è un lavoro che considero la variante scultorea dell’altra serie di lavori in mostra da Divario, Non so dove, Non so quando. La scelta dell’utilizzo delle muffe rappresenta il superamento dell’ingegno umano. Non si può riprodurre la casualità e questo espediente mi rende in grado di guardare oltre il controllabile. Sono partito dalle fotografie su cui lascio agire le muffe e i funghi per poi arrivare a dare ad esse un corpo tridimensionale. Gli elementi naturali che presento appartengono alla classe dei lignicoli, una tipologia di fungo che assume la sua struttura assorbendo la linfa degli alberi su cui crescono. La scelta di realizzarli in gomma siliconica nasce dall’associazione di un elemento attraente con uno invece disturbante. Questo materiale è utilizzato infatti nella realizzazione dei sex toys, rappresentazioni di oggetti del desiderio e portatori di piacere, oggetti attraenti e respingenti al tempo stesso, in quanto si presentano spesso con forme del tutto estranee al corpo umano. I miei lavori funzionano allo stesso modo: colori magnetici in realtà nascondono una natura disturbante.
Perché se cerchi l’astrazione perfetta utilizzi la fotografia come supporto, un elemento che cristallizza la realtà nella sua concretezza?
La sottile linea in cui si crea questo rapporto tra attrazione e repulsione è rintracciabile solo nel momento in cui ci troviamo di fronte qualcosa in cui possiamo immedesimarci. Se vedo un corpo morto, dei fiori appassiti, sento che quell’immagine mi appartiene perché so che lo stesso processo di decomposizione toccherà anche al mio corpo prima o poi. Il pensiero dietro la mostra da Divario è basato sulla trasformazione dei corpi e il mio obiettivo è quello di lavorare sul processo di accettazione della morte. Nelle mie lightbox si riconoscono volti umani, si riconosce la faccia di un bambino che gioca quasi completamente decomposto dalle muffe… non sappiamo se di fronte a noi ci sia una scena ludica o un immagine satanica.

La scelta della fotografia ha a che fare con il tempo, un elemento centrale nel tuo lavoro…
Sì, è così. Noi dobbiamo metterci in testa che il tempo è solo una percezione individuale. Non credo esista nulla di più personale che la maniera con cui conserviamo un ricordo. Per questo mi interessano le diapositive che non appartengono mai a me o alla mia famiglia. In queste trovo volti di persone che non ho mai visto. La decomposizione che faccio scaturire sulla fotografia rende irriconoscibile il soggetto, mi fa sentire la cristallizzazione di quel momento che viene ritratto come mia, proprio perché potrebbe appartenere a chiunque, è depersonalizzata. Il tempo è qualcosa che esiste a prescindere dalla nostra permanenza come collettività e occorre sempre osservarlo da una prospettiva universale. La nostra misura del tempo è fittizia. Il tempo esiste senza alcun riferimento umano. Leggiamo il mondo e suoi fenomeni in maniera umana, quello che faccio con il mio lavoro è tentare di sfruttare la capacità del tempo di rendere ridicola questa nostra assurda presunzione di centralità e univocità.

Che rapporto hai con la morte e che ruolo credi abbia nella vita?
Come per la maggior parte degli artisti anche nel mio caso quello con la morte è un rapporto di negazione. Faccio questo lavoro per sopravvivere alla mia obsolescenza programmata, però con la mia ricerca provo a rendere la morte più accettabile perché ritengo che essa sia in grado di produrre tanta bellezza. La decomposizione è un processo inevitabile ma è uno stadio, una fase. La nostra esigenza di cristallizzazione del saluto nel momento del funerale è sempre stato qualcosa di stimolante e ispiratorio. Noi conviviamo con la morte, viviamo in case che adorniamo con i fiori, niente più che corpi morti in decadenza. La presenza della fine appartiene a noi dal momento in cui nasciamo eppure la fuggiamo. Il nostro essere degli animali sociali lo dimostra: se fossimo degli individui isolati non potremmo che vivere, morire ed essere dimenticati. Io dico sempre di essere un entusiasta della vita ma dobbiamo dare un senso a questo esistere, un bilanciamento è sempre necessario.
Come Funghi è un’installazione con molteplici livelli di lettura, parlamene nel dettaglio…
Io non mi presento mai come un artista politico però credo che Come Funghi sia un lavoro politico. Sono partito dalla considerazione secondo cui riteniamo facile immedesimarci nelle società animali, mentre con gli organismi meno noti come i funghi abbiamo un rapporto di distacco. Li conosciamo poco e spesso li associamo a immaginari terrificanti come la stregoneria e il folklore. L’immedesimazione con questi organismi invece potrebbe darci davvero tanta ispirazione. I funghi lignicoli assorbono gli zuccheri di un tronco morente in anidride carbonica, a sua volta essenziale all’ecosistema in cui questi crescono. La decomposizione che i funghi innescano non è quindi necessariamente qualcosa di raccapricciante. Questo concetto di distruzione naturale io lo elevo nel tentativo di voler rappresentare la distruzione di schemi mentali che appartengono alla nostra società. Ci sono dei dogmi con cui siamo cresciuti e non ritengo positivi. Occorre rivedere gli schemi culturali del nostro tempo riferendoci a modelli nuovi e fino ad ora mai considerati.

Nella tua ricerca è ricorrente lo strumento della metafora. Che finalità ha nel tuo linguaggio artistico?
Utilizzo la metafora per veicolare facilmente ciò di cui parlo. Io di certo rifuggo il simbolo: i simboli sono elementi atavici che fanno parte da sempre nella natura umana e sono spesso utilizzati per rafforzare il ruolo dell’essere umano in un determinato contesto culturale. Io cerco di parlare non solo alla mia comunità, vorrei parlare con chiunque, da qualsiasi parte del mondo. Evito gli schemi di riferimento, non ho paura di essere pop, l’aspetto estetico rimane per me fondamentale e raggiungere un pubblico più ampio possibile per me è necessario, la metafora in questo rimane lo strumento più agile ed efficace. Quello a cui aspiro è cercare una via universale nell’accettazione di qualcosa che non è estraneo per nessuno, seppur da culture differenti viene osservato da prospettive non necessariamente simili. La morte è oggettiva per tutti.
Le tue opere si avvalgono dell’estetica come espediente comunicativo ma esplicitano necessariamente sempre un unico messaggio?
Assolutamente no. Niente può essere letto in maniera univoca, nel caso della morte è impossibile non considerarne le tante sfaccettature. Non c’è mai una chiusura nella ricerca che porto avanti con le immagini. Non si deve mai pensare di insegnare qualcosa a qualcuno con l’arte, piuttosto si deve mirare a distruggere una preesistente forma di convincimento. Voglio che il mio lavoro susciti delle domande. L’arte non deve cambiare il mondo ma deve ispirare al cambiamento. Questo è un grande errore compiuto da un certo tipo di discorso artistico. C’è sempre qualcuno che si arroga il diritto di poter fare un discorso didattico attraverso l’arte quando invece dovrebbe essere l’opposto. Stimolare alla decostruzione di un modello non può essere fatto tramite un solo lavoro o una singola mostra. Quello che voglio provocare con tutto il mio lavoro è l’accettazione della morte come un elemento generatore di vita. Questo è ciò che dovrebbe fare qualsiasi rivoluzione.

Giulio Bensasson, Sediamoci qui
a cura di Filippo Tranquilli
fino al 3 marzo
Divario – via Famagosta 33, Roma
info: divario.space