Sempre più spesso oggi si parla di Cripto Arte, NFT, blockchain e metaverso, per comprendere a fondo questi concetti abbiamo parlato con Serena Tabacchi, direttrice e co-fondatrice del MoCDA, Museo d’Arte Contemporanea Digitale, istituzione nata online e che si manifesta fisicamente attraverso dei pop-up creati in collaborazione con dei partner, allo scopo di educare all’utilizzo del mezzo digitale e divulgare il funzionamento delle nuove tecnologie che si celano dietro l’arte digitale.
Tabacchi, da sempre affascinata dalla fantascienza, dal gaming, dalla tecnologia e dalle incredibili possibilità che questa può dare e le innovazioni che può portare, promuove e diffonde l’educazione dell’arte digitale e delle nuove tecnologie in eventi pubblici e accademici ed è curatrice di alcune delle prime mostre internazionali di NFT, supportando concretamente artisti nazionali e internazionali.

Recentemente hai curato a Roma, per la Maison Bosi, la mostra d’arte digitale NOT Built in a DAY, in cui sono stati esposti digital artworks o DAW. Cosa differenzia questi dalle opere realizzate con NFT?
I DAW, ovvero i digital artwork nascono prima degli NFT, più precisamente nel 2016 quando l’azienda Cinello, start up italiana che si occupa di tecnologie dedicate al settore artistico, li brevetta. Cinello mette in campo una criptografia digitale che dà la possibilità di salvaguardare e autenticare copie uniche digitali certificate delle opere d’arte. È una tecnologia innovativa ma conforme all’apparato legale e burocratico-amministrativo di qualsiasi capolavoro artistico, ovvero è presente un certificato di autenticità firmato dall’artista fisicamente, e poi presente un hardware sul quale si inserisce il file criptografato che non potrà essere estratto o rubato. Quindi è un brevetto che salvaguardia artista e collezionista. Nel 2018 si diffonde la parola NFT, non-fungible token, e il Web 3, ovvero la tecnologia blockchain, un archivio pubblico distribuito e decentralizzato di informazioni, in cui vengono registrate tutte le transazioni, in cui i dati sono inseriti all’interno di una catena di blocchi di informazioni, tramite operazioni crittografate. Si parla di decentralizzazione poiché manca un’unità centrale che controlla il flusso di dati. Affinché la blockchain funzioni sono fondamentali gli smart contact, contratti intelligenti introdotti da Ethereum, i quali definiscono le regole su come le informazioni registrate vengono veicolate e si relazionano tra loro. Vengono salvati esclusivamente le informazioni, i certificati che attestano che in un dato giorno, a una certa ora, è stata creata un’opera d’arte, la quale è in un formato unico ed è di proprietà o è stata creata da un artista specifico. E questi sono gli NFT.
Un prodotto artistico è per definizione un bene non fungibile infatti l’arte diventa tra i primi soggetti di sperimentazione di questa nuova tecnologia, la quale sfrutta gli NFT per dare un mercato all’arte digitale, che fino ad allora non aveva trovato un vero e proprio mercato all’interno del circuito delle gallerie o un supporto museale che andasse a dare un valore all’arte stessa creata con l’ausilio di computer o software. Quindi, la differenza principale tra DAW e NFT è che nel primo abbiamo un file, nel secondo esiste un certificato visibile da tutti ma non c’è un ente che garantisca e assicura che la certificazione sia effettiva. A differenza dei DAW, gli NFT possono essere bruciati, ovviamente è una cosa scorretta che il mercato dell’arte non approva, ma potrebbe accadere, si rimuove l’informazione, il contenuto del certificato ma ne resta comunque la traccia. Il DAW, invece, tutela al cento per cento artista, collezionista e gallerista.

Parlando della Cripto Arte, in che contesto è nata? Cosa la differenzia dalla Digital Art?
La Cripto Arte, o Crypto Art, si diffonde nel 2018 insieme all’avvento della blockchain, per poi trovare una diffusione massima nel 2021, quando l’artista digitale americano Mike Winkelmann, noto come Beeple, realizza l’opera Everydays: the first 5000 days, un’immagine jpeg, infinitamente replicabile e scaricabile da chiunque, alla quale è stato associato un NFT. A far clamore è stato il prezzo a cui è stata venduta dalla casa d’asta Christie’s nel marzo del 2021: 69 milioni di dollari, divenendo una delle opere d’arte più costose della storia dell’arte. Tutto ciò ha permesso la diffusione di una nuova forma artistica che potesse essere gestita autonomamente dagli artisti online, attraverso delle piattaforme di criptoarte, dandogli la possibilità di creare un profitto diretto, senza l’ausilio di intermediari e della royalty. Questa è stata la rivoluzione che ha portato questa nuova modalità di fare arte. Le opere di cryptoarte sono convertite in NFT per poter essere vendute e si utilizza il termine cripto, perché è legata a un sistema che si basa sulle criptovaluta, monete virtuali come ad esempio i bitcoin. La Cripto Arte intesa come movimento ha visto nascere anche una sorta di estetica legata ad essa, si ritrova spesso il simbolo del bitcoin o dell’ethereum, come marche di questa nuova filosofia, di questo nuovo trend, il quale inizia a perdere potere rispetto all’arte digitale in sé. Quest’ultima c’era prima della Cripto Arte e continua a esistere.
Come l’arte può entrare nel Metaverso?
Il Metaverso è un insieme di spazi virtuali, mondi differenti, all’interno dei quali possono essere rappresentate diverse cose, tra cui le opere d’arte. Per farlo è necessario includere un link che collega a un NFT, il quale può essere inserito all’interno dello spazio virtuale. Questi mondi sono visibili a distanza, in questo modo si facilita la distribuzione dell’arte, poiché rende possibile fare un’esperienza da qualsiasi luogo in cui ci si trova. La differenza tra le gallerie virtuali esistenti da alcuni anni e il metaverso è che nel secondo caso tutto viene supportato da tecnologia blockchain, il che facilita quella che chiamiamo interoperabilità, ovvero il passaggio di asset digitali da un universo digitale all’altro. Attraverso questa tecnologia possiamo far sì che in questi mondi vengano create delle economie: chiunque può acquistare una copia di un’opera creata in NFT da un artista e portarlo nel suo mondo. Inoltre, rispetto a una galleria digitale customizzata, realizzata in 3D, nel metaverso vi è fluidità e scambio di opere quindi un nuovo commercio e una nuova economia che può nascere all’interno di questi spazi virtuali, aspetto interessante da non sottovalutare in un prospettiva futura.

Nel Metaverso hai curato i progetti di Valentina Vetturi, Miltos Manetas, Michela de Mattei per MAXXIVERSO, un progetto voluto dal Maxxi sia di Roma che dell’Aquila…
Sì, in collaborazione con la piattaforma metaverse art space ARIUM, i tre artisti hanno creato degli spazi ad hoc, dei mondi customizzati, partendo da esplorazioni phygital, ovvero esperienze fisiche digitali, che sono state create al Maxxi Aquila virtualmente. Queste opere potevano essere fruite sia in formato digitale che in presenza, ma erano differenti: quello che accadeva dal vivo era differente da ciò che si vedeva nel Metaverso. Non era una trasposizione, come una galleria virtuale che va a riportare il quadro digitalizzato nella versione online, era una esperienza differente, che però faceva parte dello stesso lavoro, una performative phydital legata alla sfera performativa o performate dell’opera d’arte. È stato un progetto interessante perché Maxxi Aquila è una realtà in divenire e sperimentale.
In Italia ti sei occupata di curare a Palazzo Strozzi, Let’s Get Digital!, progetto espositivo che ha portato negli spazi della Strozzina e del cortile, l’arte degli NFT e delle nuove frontiere tra reale e digitale attraverso le opere di artisti internazionali. Come è andata questa esperienza?
Insieme ad Arturo Galansino, abbiamo realizzato questa mostra in concomitanza con l’esposizione dedicata al grande maestro Donatello, nelle sale di Palazzo Strozzi. Il nostro intento è stato creare un dialogo tra passato e presente. L’opera di Refik Anadol, esposta nel cortile, creava un ponte tra quello era esposto ai piani alti del Palazzo e quello che abbiamo esposto nella Strozzina, luogo ideale poiché essendo senza finestre e completamente al buio, lo ha reso perfetto per un opera digitale. Sono state esposte alcune delle icone pop di questo movimento come Beeple, ma anche opere più ricercate legate alla sfera del design, dell’architettura con Krista Kim e della scultura con Daniel Arsham.
È stata un’occasione per presentare le esplorazioni di quella che è l’arte digitale legata a tecnologia blockchain negli ultimi due anni e mostrare i diversi punti di vista: arte, pittura, scultura, design e artificial intelligence e machine larning con Refik Anadol. Questa mostra ha dato modo di realizzare una istantanea, uno spaccato dell’arte digitale, in dialogo con le opere di Donatello, il quale è stato un artista innovativo e distrupctive, il quale faceva scalpore realizzando cose fuori dal comune.

Il mondo dell’arte e i musei tradizionali come stanno rispondendo a questi cambiamenti?
C’è chi si adopera per fare dei passi verso questa direzione ma quello che personalmente noto è la poca comprensione a pieno del fenomeno, perché nato e sviluppatosi on line, attraverso i social media e la maggior parte delle istituzioni passano pochissimo tempo su i social o delegano quel aspetto li a persone che conoscono poco lo storico dell’istituzione. Esiste sempre un gap generazionale tra chi si prende cura dell’immagine pubblica di un museo attraverso i social e chi invece lavora negli uffici e si occupa della gestione delle collezioni permanenti di queste istituzioni. Ma è uno sbaglio perché giudicandosi l’un l’altra, viene meno la possibilità di comunicare effettivamente tra loro e di utilizzare questa tecnologia a proprio vantaggio, aprendo le porte a un potenziale maggiore. A mio avviso, il campanello d’allarme è che molte istituzioni, gallerie e musei, si stanno adoperando in questa direzione, ma lo fanno o con una mentalità giudicante che non vuole conoscere a pieno il fenomeno e lo fa solo perché va fatto, poiché è una cosa che esiste e non può essere ignorata, ma lo fanno storcendo la bocca. Coloro che mettono in atto operazioni interessanti necessitano comunque di una conoscenza più approfondita del fenomeno. Inoltre, penso che se c’è la volontà e la necessità di seguire queste nuove correnti, ben venga, ma non deve essere un obbligo. È una scelta che va fatta consapevolmente, dopo aver compreso come relazionarsi con questa tendenza, conoscerla, viverla e non delegarla solo ai giovanissimi. L’avvicinamento al digitale non deve essere vissuto come un conflitto ma con la consapevolezza che questa cosa c’è e farà sempre più parte della nostra vita, per tanto va conosciuta piuttosto che osteggiata o oltraggiata
In conclusione, ritieni che queste nuovissime forme d’arte possano incontrarsi con le altre?
Certo, assolutamente, io penso che ci siano molti punti d’incontro. Magari non cosi evidenti, ma capendo e studiando il fenomeno, sicuramente si.