La potenza dell’atto performativo, tanto nei luoghi dell’arte come nello stadio di Doha

La nazionale iraniana che si rifiuta di cantare l’inno ai mondiali di calcio incide un segno degno delle migliori performance della storia

Chi lavora nel mondo dell’arte ha l’asticella dello stupore anestetizzata. Dopo il secessionismo viennese, Vito Acconci e Gina Pane, l’assuefazione è tale da provare raramente una qualche reale forma di fastidio o piacere. La speranza di incontrare nuovi primi amori rimane, ma quelli vecchi dovranno resistere ancora per un po’.

Poi arrivano i mondiali di calcio. Gli stadi hanno così poco in comune con le sale dei musei, gli allenatori non sono curatori, gli sportivi non sono artisti, ma lo stupore è incredibilmente lì, tra i fili d’erba dello stadio di Doha. La nazionale iraniana rifiuta di cantare l’inno e si stringe in cerchio in segno di protezione verso i manifestanti e le donne del loro paese. Un atto performativo semplice e potentissimo durato pochi secondi, nel tempo di un tweet hanno scritto una pagina di storia. Qualcuno potrebbe obiettare che si tratti di un gesto politico e non artistico – come se fossero davvero due cose diverse – ma l’assioma per cui è il contesto a sancire cosa sia arte è un retaggio da scardinare.
Tornano subito alla mente i pugni chiusi di Tommie Smith e John Carlos sul podio di Messico ‘68. Oltre al guanto indossarono una serie infinita di simboli: una collana di perle per ricordare i linciaggi, calze nere per la povertà, la tuta slacciata per i lavoratori. Come la Fifa oggi, il Comitato Olimpico non la prese per niente bene, li squalificarono regalandogli l’immortalità.

Nello stesso anno Bruce Nauman lavora a Walk with Contrapposto. Nel suo studio costruisce un corridoio claustrofobico, si filma mentre cammina avanti e indietro in quello spazio ostile cercando di mantenere saldo l’equilibrio del corpo e della mente. A migliaia di chilometri di distanza i due velocisti stanno facendo uno sforzo simile, ma in mondovisione. Nel 1972 Marina Abramovic porta Rhythm 0 allo Studio Morra di Napoli. Per sei ore resta immobile al centro della stanza circondata da decine di oggetti, da un’ascia alle piume, il pubblico poteva scegliere con cosa sfiorarla, toccarla o colpirla a morte. Dopo iniziali tentennamenti è stata vessata, perfino trafitta sulla pancia con le spine di una rosa.

L’essere umano è prevaricatore per natura se ne ha la possibilità, è un fatto. Lo dicono la scienza, le repressioni di Teheran e le riunioni di condominio. In tutte le performance ci sono dettagli costruiti maniacalmente, poi c’è quel momento impercettibile in cui l’intenzione dell’artista cede il passo all’inconscio del pubblico: le perle della collana sembrano davvero pietre, il silenzio della nazionale una rivolta, un corridoio angusto una condizione universale. Se l’uno coincide col tutto, il gesto di un singolo può raccontare un popolo: almeno così sostiene Platone nell’ora di filosofia a scuola. Mentre il deserto del Qatar si riempiva di mega installazioni dei più grandi artisti viventi – opere dalle tematiche sociali accuratamente addomesticate per l’occasione e con lo stesso piglio reazionario di una Miss che invoca una generica pace nel mondo – 26 persone in calzoncini, con la forza di una corona di spine, hanno inciso sul ventre molle del mondo una lezione di umanità. 

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