Letizia Battaglia aveva 87 anni ma c’erano delle caratteristiche in lei che tradivano lo spirito di un’adolescente indisciplinata. Il suo volto sorridente portava i segni delle lotte che nella sua vita aveva dovuto combattere, i capelli prima rosa e poi azzurri erano solo la prova del suo anticonformismo. «Mi chiamo Letizia Battaglia – diceva ridendo in una recente intervista per Freeda – non posso separarmi». L’impegno di una combattente e l’animo di una ragazzina, due pulsioni presenti tanto nella sua vita quanto nei suoi scatti che ti raccontano la realtà con un’empatia velata di malinconia e che allo stesso tempo ti sparano addosso un getto di doccia gelata. Non semplici documentari ma narrazioni che, come il suo volto, portano i segni del dolore, della tristezza e delle sofferenze che ha attraversato in prima persona.
Perché la neutralità è di un altro mondo, non appartiene a quello di Letizia Battaglia. Dentro a quel bianco e nero c’è l’inchiostro di mille storie scritte sulla pellicola, il racconto di una donna, prima che di una fotografa, sincera. E con la stessa onestà Battaglia ha intrappolato nei suoi scatti l’odio per la violenza, l’amore per le persone e per una città dalle sfumature di grigio, Palermo, slabbrata, decadente, povera, come la definiva lei e alla quale, pure quando andava via, tornava sempre. “La contraddizione definisce Palermo”, scriveva Sciascia, e quelle contraddizioni è impossibile non raccontarle che sia con la penna che sia attraverso l’obiettivo e Letizia Battaglia ne era ben conscia.
Autodidatta, Battaglia impugna a quasi quarant’anni suonati la macchina fotografica. Comincia presentandosi nel ’69 all’Ora di Palermo e per quel giornale fa la prima foto di una prostituta. Poi, dopo una parentesi formativa milanese, torna a Palermo e lavora come cronista confrontandosi inevitabilmente con la mafia. Fotografa l’uccisione del Presidente della Regione Piersanti Mattarella, scatta fotografie a Giulio Andreotti in compagnia di Nino Salvo di Cosa Nostra, che saranno utilizzate agli atti dei processi a seguire. Nel 1992, dopo l’uccisione del magistrato Giovanni Falcone, decise di smettere di documentare i fatti di mafia. «Ho sofferto – dice in una recente intervista per Repubblica – per coloro che sono morti per mano mafiosa, da Boris Giuliano ai tanti che hanno disseminato di sangue la mia terra. Ho pianto, ho imprecato e ho documentato le carneficine e gli omicidi». E le sue lacrime sono state il suo regalo per l’arte, l’inchiostro che ci aiuta ancora oggi a ripercorrere i momenti bui della storia del nostro Paese e che disegna i volti di un’umanità che non ha bisogno di colori, ma di contrasti, per emergere dallo sfondo di una città.