Riapre la Bakehouse di Miami: cento artisti in residenza raccontano i conflitti di genere e identità

Nell’ex-complesso industriale di Miami gli artisti toccano molti temi d'attualità, tra cui la discriminazione e il conflitto in Ucraina

È il 1926 quando la American Bakeries apre la prima panetteria industriale nell’attuale quartiere di Wynwood a Miami, dove opera fino agli anni ’70. Nel 1984 un gruppo di artisti acquista lo storico edificio art déco in disuso, e fonda il Bakehouse Art Complex allo scopo di proteggere la comunità dal boom immobiliare, fornendo spazi per l’arte a prezzi accessibili. Oggi la Bakehouse è casa per oltre cento artisti residenti, il cui lavoro accoglie molteplici pratiche, dalla pittura alla performance. Il complesso offre residenze in studio e infrastrutture (sala stampa, biblioteca, laboratorio fotografico, aree per la lavorazione di legno, ceramica e metalli) che consentono il massimo livello di creatività e collaborazione. Il primo open studio dell’anno dopo la pandemia ha visto una nutrita partecipazione di pubblico ai numerosi eventi indoor, incentrati sulle collettive degli artisti residenti (“Viewpoints: expressions of an artist community” e “Fresh goods for sale”), e outdoor, tra cui spicca l’imponente progetto memoriale di Chire Regans (“Say their names”): un murale che corre lungo la facciata ovest dell’edificio riportando i nomi di oltre cinquecento vittime di violenza domestica e di genere. La discriminazione è un tema particolarmente caldo a Miami, e non è un caso la preponderanza femminile e della comunità LGBTQ all’interno della Bakerhouse.

Tra le voci al femminile, la californiana GeoVanna Gonzales racconta il modo in cui ci connettiamo e interagiamo attraverso l’ambiente fisico, in un momento in cui l’interazione fisica ha subito restrizioni estreme. Le sue “sculture funzionali” sono un dispositivo interrelazionale che riconnette pratiche artistiche e curatoriali. Il tema è quello della negoziazione tra sfera pubblica e privata: chi la determina, e in che modo influisce sulle nostre vite. Dichiara GeoVanna: “esploro l’idea di esistenza nello spazio reale e virtuale sulla linea dove il confine sfuma, e la relazione tra genere e identità”. “How To: Oh, look at me” (2021) è lo shooting di una performance interdisciplinare che coinvolge due danzatori (Cheina Ramos e Alondra Balbuena), un musicista (Batry Powr), e due poeti (Zaina Alsous e Arsimmer McCoy). È concepita come attivazione dell’omonima scultura funzionale in mostra a Locust Projects lo scorso maggio, dove la forma statica diventa spazio che incoraggia la contemplazione, la meditazione e la relazione. La pratica artistica della cubana Sandra Ramos è sospesa tra ricerca antropologica e responsabilità etica. È un modo per connettere la storia collettiva al destino individuale, ponendoli entrambi sull’orizzonte di un futuro distopico, definito dall’impossibilità di cambiare la realtà umana. A Venezia (Biennale 2013) e all’Avana (Biennale 2012), Ramos è stata tra i primi a sfidare il silenzio sulla questione cubana, affrontando temi proibiti quali la diaspora e la frustrazione dell’utopia di Castro sullo sfondo dalla crescente standardizzazione del pensiero binario occidentale. Il suo atelier presenta scaffali ben ordinati di smartphone e tablets in argilla (“Impossible dialogs”, 2021). Ispirati alle tavolette cuneiformi sumeriche, la più antica forma scritta di disputa tramandataci dalla storia, sono un omaggio al popolo cubano che lotta per la propria libertà di espressione. A Cuba i social media sono paradossalmente l’unica voce libera, espressione di una dissidenza politica che non trova altrimenti spazio nel dibattito con i media ufficiali. Allo stesso tempo, spiega l’artista, il suo lavoro “evidenzia i concetti di permanenza e impermanenza, e come la gente abbia perso il senso di responsabilità delle proprie azioni in un mondo virtuale in cui si ha l’illusione che tutto debba scomparire senza conseguenze”.

Da Stoccolma arriva Christina Pettersson, il cui lavoro fa riferimento alla natura selvaggia, alla stregoneria e alla nostalgia di un mondo in declino che si ispira alla sua terra d’adozione, l’aspra distesa paludosa delle Everglades sull’estremità meridionale della Florida. Una “terra di mezzo” resa attraverso disegni, video, installazioni e performance in cui spettri notturni, parassiti velenosi e scheletri fossili popolano gli anfratti tra mangrovie costiere e cipressi palustri. Sono luoghi dell’inconscio e dell’anima, minacciati da cementificazione e agricoltura intensiva tanto quanto dalla progressiva desertificazione della nostra vita psichica. L’austriaca Maria Therese Barbist è anche psicologa e musicista. Sul pavimento del suo atelier una distesa di piccoli blocchi di legno sono connessi da un lungo, continuo laccio di scarpa (“Solidarity”, 2022). È un omaggio alla popolazione dell’Ucraina, e una metafora al tempo stesso della tensione e della connessione emotiva che lega la comunità umana, senza distinzione di genere ed etnia. Un messaggio di resilienza e di speranza per navigare questi tempi difficili. Uniti insieme.

Bakehouse Art Complex
Dal 29 Marzo, aperto ogni giorno dalle 12:00 alle 17:00 
info: www.bacfl.org